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21/02/2025

Cina, l’anno del serpente

Alla Conferenza sulla sicurezza che si è svolta a Monaco di Baviera dal 14 al 16 febbraio scorso la Cina ha lanciato segnali importanti: sulla soluzione negoziale del conflitto in Ucraina, agli Stati Uniti e all’Unione Europea.

Nella città tedesca Wang Yi ha anzitutto chiarito che la Cina appoggia l’idea di Donald Trump di trattative dirette con la Russia. Il ministro degli esteri di Pechino ha dichiarato:
«La Cina è favorevole a tutti gli sforzi per promuovere la pace... Gli Stati Uniti hanno raggiunto un’intesa con la Russia e crediamo che tutte le parti e tutti gli stakeholder dovrebbero, al momento opportuno, partecipare al processo dei colloqui di pace».
Ma l’influente membro dell’ufficio politico del Partito comunista – proprio mentre il vice presidente Usa, J.D. Vance, nello stesso consesso attaccava le politiche migratorie, sull’aborto e la governance digitale dell’UE – ha rilanciato il ruolo della Cina come fautrice dell’ordine internazionale, ricordando a Bruxelles che:
«Nel corso degli anni, è stato detto che la Cina sta tentando di cambiare l’ordine e vuole avviare un nuovo sistema. Ora invece non se ne parla più molto, perché ora c’è un paese (gli Stati Uniti, ndr) che si sta ritirando dai trattati e dalle organizzazioni internazionali e penso che l’Europa possa sentire i brividi quasi ogni giorno. Per quanto riguarda la Cina, sta crescendo nell’ordine esistente: la Cina ne è beneficiaria».
Un riavvicinamento Cina-Unione Europea non è affatto semplice, né scontato. L’alta rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE, Kaja Kallas, a Monaco ha continuato a criticare la politica estera di Pechino, dichiarando che «se la Cina vuole avere buoni rapporti con l’Europa, deve smettere di consentire la guerra della Russia».

Tuttavia è chiaro che non solo il protezionismo dell’amministrazione Trump, ma anche la sua politica estera e di difesa renderà Bruxelles più sensibile alle sirene di Pechino. Ad esempio, il segretario alla Difesa Usa, Pete Hegseth, mercoledì scorso ha annunciato che le truppe europee di mantenimento della pace in Ucraina non saranno coperte dall’articolo 5 del trattato della Nato, che assicura la mutua difesa tra i paesi membri.

Prima, durante e dopo l’incontro bilaterale dell’altro ieri tra le delegazioni russa e statunitense in Arabia Saudita, Pechino ha sottolineato che qualsiasi negoziato dovrà includere tutte le parti coinvolte e tutti gli stakholder. In particolare, l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, Fu Cong, ha dichiarato:
«La Cina accoglie con favore tutti gli sforzi in direzione della pace, compreso il recente accordo raggiunto da Stati Uniti e Russia per avviare colloqui di pace. Allo stesso tempo, la Cina spera che tutte le parti interessate e gli stakeholder coinvolti nella crisi ucraina si impegnino nel processo di colloqui di pace e raggiungano un accordo di pace giusto, duraturo e vincolante, accettabile per tutte le parti».
La Cina di Xi Jinping – che ha rafforzato i legami con la Russia di Putin e che il 24 febbraio 2023, un anno dopo lo scoppio della guerra, ha elaborato una proposta di soluzione politica del conflitto, deve evitare di essere lasciata ai margini di eventuali trattative a trazione russo-statunitense.

Anche per questo obiettivo sono funzionali le parole pronunciate da Wang contro l’unilateralismo alle Nazioni Unite:
«I paesi sono interdipendenti e condividono lo stesso futuro e nessun paese può farcela da solo. Non dobbiamo permettere che i forti governino i deboli e tanto meno ritornare alla legge della giungla».
Tornando a Monaco, nel suo discorso alla sessantunesima Conferenza sulla sicurezza Wang è tornato sulle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti. In riferimento al protezionismo e al contenimento hi-tech della Cina, il ministro degli esteri di Pechino ha dichiarato che:
«Naturalmente speriamo che gli Stati Uniti lavorino con noi nella stessa direzione. Tuttavia, se gli Stati Uniti non sono disposti, se sono intenzionati a reprimere e contenere la Cina, allora non abbiamo altra scelta che stare al gioco fino alla fine. E risponderemo con decisione alle pratiche unilaterali di bullismo degli Stati Uniti».
E, in un passaggio su Taiwan, ha sostenuto che:
«Voglio sottolineare che non dovrebbero esserci doppi standard nell’adesione alle leggi internazionali. La sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi devono essere rispettate, il che significa sostenere la completa riunificazione della Cina».
Il 7 febbraio scorso, Trump e il primo ministro giapponese, Shigeru Ishiba, avevano pubblicato una dichiarazione congiunta per opporsi a qualsiasi alterazione dello status quo nello Stretto di Taiwan attraverso la forza o la “coercizione”. L’inclusione di quest’ultimo termine ha suggerito che i due alleati punterebbero a osteggiare qualsiasi tattica cinese per fare pressione sull’isola che Pechino rivendica come una sua provincia.

Anche su Taiwan si era focalizzato il primo contatto ufficiale tra le due amministrazioni dopo l’insediamento di Trump, con la telefonata di venerdì 24 gennaio tra il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, e il suo omologo statunitense, Marco Rubio. I resoconti di Pechino e di Washington sulla conversazione divergono e, mentre il primo è più articolato, quello Usa è più scarno.

Tuttavia da entrambi si evince che – oltre ai dazi sulle merci importate dalla Cina negli Usa, che Trump ha aumentato del 10 per cento – le questioni che maggiormente dividono i due governi sono Taiwan e le dispute territoriali nel Mar cinese Meridionale, parte di quell’Oceano Pacifico finora dominato dagli Usa grazie alla VII flotta e alla loro rete di alleanze politico-militari.

Nel comunicato Usa si legge che Rubio (promotore al Congresso di una serie di leggi anti-Cina) «ha sottolineato l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dei nostri alleati nella regione e la seria preoccupazione per le azioni coercitive della Cina contro Taiwan e nel Mar cinese meridionale». Ciò segnala che l’America dello “isolazionista” Trump non ha intenzione di rinunciare alla sua egemonia nel Pacifico occidentale.

Mentre quello cinese manda a Washington un doppio avvertimento. Anzitutto a non ostacolare (con i dazi o quant’altro) lo sviluppo socioeconomico della Cina. Wang ha infatti detto a Rubio che
«la leadership del Partito Comunista Cinese è la scelta del popolo cinese. Lo sviluppo della Cina ha una chiara logica storica ed è guidato da un forte dinamismo interno. Il nostro obiettivo è offrire una vita migliore alle persone e dare un contributo maggiore al mondo. Non abbiamo intenzione di superare o sostituire nessuno, ma dobbiamo difendere il nostro legittimo diritto allo sviluppo».
Dall’altro, su Taiwan, il capo della diplomazia cinese ha ribadito le tradizionali linee rosse di Pechino, sottolineando che
«Taiwan fa parte del territorio cinese fin dai tempi antichi e che non permetteremo mai che Taiwan venga separata dalla Cina. Gli Stati Uniti hanno assunto impegni solenni a rispettare la politica di una sola Cina nei tre comunicati congiunti e non dovrebbero rinnegarli».
Come era prevedibile, Trump ha iniziato il suo secondo mandato concentrandosi sui temi “identitari” del suo elettorato, varando una serie di ordini esecutivi contro l’immigrazione illegale, i diritti delle persone LGBTIQ+, eccetera.

Tuttavia è inevitabile che nelle prossime settimane dovrà affrontare i nodi delle relazioni tra la prima e la seconda economia del pianeta, sempre più tese, nonostante nei giorni scorsi abbia dichiarato che «Xi Jinping è come un amico», con il quale «potrò andare molto d’accordo».

Con ogni probabilità Trump partirà dalla questione del commercio tra i due paesi, che nel 2024 ha fatto registrare un surplus per la Cina di 361 miliardi di dollari, quasi un terzo dell’avanzo commerciale complessivo (con il resto del mondo) di Pechino. A tal proposito, la Casa bianca ha annunciato che sta effettuando una “revisione del rispetto dell’accordo economico e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, che sarà ultimata entro il 30 aprile.

L’intenzione dell’amministrazione repubblicana sarebbe dunque di ripartire dall’accordo strappato a Pechino dopo che, nel 2018-2019, il Trump I aveva imposto dazi per 370 miliardi di dollari sulle importazioni dalla Cina.

Quella intesa siglata nel 2020 prevedeva l’acquisto (in due anni) di 270 miliardi di dollari di prodotti statunitensi in più, rispetto al livello del 2017. Un’intesa mai rispettata da Pechino, anche a causa dell’emergenza della pandemia di Covid-19.

Riproporre il patto di quattro anni fa permetterebbe a Trump di riportare Pechino al tavolo del negoziato, accantonando la minaccia elettorale di dazi del 60 per cento su tutte le merci importate negli Usa dalla Cina.

Intanto nella sede diplomatica Usa di Pechino è in arrivo il nuovo ambasciatore che sostituirà Nicholas Burns, diplomatico di professione: si tratta dell’ex senatore della Georgia David Perdue, con una carriera da consulente e businessman. Lo affiancherà – nel ruolo di vice capo missione – Sarah Beran, esperta di Cina e Taiwan ed ex funzionaria del Consiglio per la sicurezza nazionale.

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