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24/02/2025

Germania in stallo, tra conservazione e reazione

Una toppa politica “moderata” sulla voragine della crisi tedesca. I risultati delle elezioni confermano quasi tutte le previsioni della vigilia. L’unica incertezza riguardava infatti se la vittoria dei democristiani di Cdu/Csu sarebbe stata tale da permettere il più classico dei governi di transizione – la Grosse Koalition insieme ai sedicenti socialdemocratici dell’Spd – oppure se si sarebbe reso necessario un “triangolo” includendo i Verdi (quelli guerrafondai di Baebock, peraltro).

Le urne sono state a loro modo spietate. Il finanziere Friedrich Merz, il volto di destra della Cdu, ha vinto ma è rimasto abbondantemente sotto il 30%. Anzi, addirittura sotto il 29 (28,5%), che si traducono in 208 seggi.

Il tracollo dell’Spd ha lasciato a Olaf Scholz e soci appena il 16,4% e 120 deputati. Insieme fanno 328 seggi, garantendo una maggioranza risicata di appena 12 deputati.

Per la formazione di un governo al sicuro da sempre possibili “incidenti parlamentari” – già annunciati per quando si dovranno votare provvedimenti sull’immigrazione, che la Cdu proporrà nell’illusione di “limitare” così l’ascesa dell’AfD – sarebbe necessario imbarcare anche i Grunen, scesi all’11,6%, ma d’altro canto questo complicherebbe le trattative (lo scambio politico tra i diversi programmi) e non assicurerebbe egualmente la “stabilità”.

L’attesa e temuta avanza neonazista dell’AfD è andata anche leggermente al di sopra delle aspettative (il 20,8% invece del 20 attribuito dai sondaggi), raddoppiando voti e seggi; segno che l’alta partecipazione al voto (quasi l’84%) non ha influito sulle proporzioni finali. E che questa presenza è ormai “strutturale” in tutta la Germania, non più solo nei depressi land orientali.

Riemerge dalle tenebre Die Linke, la “sinistra disponibile” che sembrava qualche mese fa destinata al dimenticatoio. Merito in parte dell’ennesima scelta da marketing politico, che ha portato ai vertici la giovane Heidi Reichinnek, anche lei una “ossie”, per intercettare almeno una parte dell’elettorato che vive nell’ex DDR.

Una resurrezione sicuramente facilitata dal suicidio politico commesso quasi un mese fa da una parte dei parlamentari del BSW (la lista di Sarah Wagenknecht), quando hanno votato insieme a Cdu e AfD un ordine del giorno per una futura “legge sulla limitazione dell’afflusso” degli immigrati. Un atto politicamente stupido ma devastante sul piano simbolico, che aveva aperto subito un problema serio con l’ancora vasto elettorato di sinistra radicale, indisponibile a commistioni contronatura. Si è fermata al 4,97%, a una manciata di voti dalla soglia di sbarramento, mentre i sondaggi pre-cazzata la davano sopra il 7%.

Infine spariscono dal Bundestag i liberali, fermi al 4%. Ma nessuno li rimpiangerà...

La formazione di un governo, come da prassi, non sarà né facile né rapida. Lo stesso Merz, mezzo trionfatore, pur spingendo per una soluzione veloce perché “il mondo non ci aspetta”, ha presentato come una vittoria l’eventualità di riuscirci prima di Pasqua (tra due mesi).

Al di là delle ipotesi fornite dall’ars combinatoria sui numeri, il centro della questione è se un governo di compromesso – il solito governo di compromesso, da oltre venti anni a questa parte – sarà in grado di affrontare e soprattutto risolvere problemi giganteschi derivanti dalla mutata situazione strategica in cui la Germania si trova ora.

Due anni di recessione sono un record negativo terribile per la principale economia del Vecchio Continente e dimostrano la crisi profonda in cui è precipitato il “modello mercantilista”, export oriented, basato su salari bassi o comunque “congelati” per un ventennio. Quello stesso modello imposto, per forza economica e azione politica, a tutta l’Unione Europea, che ora si dibatte nella stessa crisi.

Chiunque governi a Berlino, inoltre, non può fare molto contro il venir meno delle ragioni “strutturali” della prosperità tedesca: forniture energetiche a basso costo provenienti dalla Russia, esportazioni verso Mosca e Pechino (poi crollate in conseguenza delle “sanzioni” decise dagli Stati Uniti di Biden per la guerra in Ucraina), basse spese militari grazie all’“ombrello” Usa e all’appartenenza alla Nato. Tutti pilastri che sono venuti meno.

La prospettiva di dazi Usa sulle merci europee, fermo restando il blocco verso Est (logica conseguenza del persistente atteggiamento ultra-guerrafondaio europeo sull’Ucraina), non consente oltretutto di vedere un minimo di sereno all’orizzonte, mente tracolla anche il pilastro industriale principale, l’automotive.

Come si vede, il “successo” economico tedesco era fondato su condizioni strategiche che consentivano il perdurare di un modello “conservativo” sul piano industriale e conservatore su quello politico (l’Spd non è mai stata diversa dalla Cdu, dai tempi di Brandt e Schmidt).

Ed anche quando funzionava quell’assetto non ha consentito di risolvere la principale contraddizione interna alla Germania, ossia la diseguaglianza profonda tra i land dell’Ovest rispetto a quelli ex DDR, oltretutto spogliati del proprio apparato produttivo in seguito all’Anschluss post caduta del Muro.

L’approccio “conservativo” ha ridotto al minimo la capacità di innovazione – praticamente, nessuna impresa tedesca od europea, segnala persino Mario Draghi, è presente tra i protagonisti delle nuove tecnologie – anche perché nessuna “visione” lungimirante è stata prodotta o almeno cercata. Le imprese, del resto, avevano un ambiente confortevole in cui fare alti profitti con il minimo sforzo...

Ora questo mondo invecchiato nella “stabilità” fissata dalle politiche di “austerità” si ritrova a doversi districare tra il trumpismo aggressivo (ma finalizzato alla riduzione degli impegni e delle spese statunitensi) e una possibile “nuova Yalta” che cancellerebbe di colpo tutto il castello di politiche e menzogne messo su nell’ultimo trentennio. Tradotto: che ridurrebbe la portata delle relazioni commerciali con Washington mentre restano congelate quelle con Russia e Cina.

Un problema gigantesco che riguarda certo tutta l’Europa. Ma che ha nella Germania, per forza di cose e di “peso”, il fulcro che determinerà il futuro a medio termine. Un fulcro in stallo tra conservazione senza speranze e reazione senza cervello. Perché l’unica cosa chiara è che una Germania “neonazista” potrebbe solo dar fuoco alle polveri stivate nella crisi, non certo costruire una prospettiva credibile.

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