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25/02/2025

Il “Muro” di Washington

Riscrivere completamente la narrazione durata ottanta anni sul “sogno americano” è un esercizio che sta mettendo a dura prova i nervi e i neuroni dei liberali di destra e “di sinistra” in Europa.

I balbettii tra conduttori e ospiti dei talk show televisivi cui assistiamo in queste settimane, di fronte allo shock and awe imposto da Trump, appaiono decisamente impressionanti, talvolta anche divertenti, ma altrettanto significativi.

Il cielo è crollato sulla testa delle élite che per decenni hanno raccontato a noi e a se stessi che l’Occidente disegnato dagli Stati Uniti poteva solo essere perfezionato dall’Europa, ma per il resto era il migliore dei mondi possibili e chi non lo accettava come tale poteva anche essere deposto, bombardato, eliminato fisicamente in nome della superiorità di questo modello su tutti gli altri.

Ma quando al suprematismo liberale dell’“Occidente collettivo” si è sostituito il “suprematismo stronzo” di Trump, il cielo è venuto giù, seminando panico, incertezze, cambiamenti di alleanze e paradigmi, così come era avvenuto quando è venuto giù il Muro di Berlino.

Gli Stati Uniti stanno ridisegnando la mappa delle loro priorità e delle loro alleanze decidendo che l’Unione Europea – e l’Europa nel suo complesso – non sono più alleati indispensabili, ma al massimo mercati e mercanti con cui stipulare accordi commerciali, se questi appaiono convenienti.

Chiedono agli stati europei di aumentare le spese militari – magari comprando più armamenti dagli USA – mentre i programmati tagli al Pentagono raggiungeranno il 40% in cinque anni.

Gli Stati Uniti oggi impongono agli stati europei di accettare la fine della guerra in Ucraina o di proseguirla per conto loro, se vorranno e se saranno in grado di farlo. Ma le spalle non saranno più coperte dal vecchio alleato statunitense.

L’ha ammesso persino il più affezionato cliente tedesco, il neo-cancelliere Friedrich Merz, a lungo avvocato d’affari per BlackRock: «È chiaro che il governo di Washington non si cura più tanto del nostro destino».

Se gli europei, seguendo come gattini ciechi gli Usa di Biden, hanno riscoperto la vocazione guerrafondaia che li ha quasi annientati nella prima metà del secolo scorso, “che si facciano la loro guerra contro la Russia” dicono oggi Washington. Oggi gli USA hanno altre priorità. La Russia può essergli più utile per destabilizzare l’Europa e magari sganciarla dal nemico principale: la Cina.

Come formiche impazzite, i governi europei cercano di recuperare il tempo perduto nel processo che doveva portare alla costituzione di un soggetto globale autonomo – chiamatelo, se volete. “polo imperialista europeo” – in tempi più rapidi di quelli consentiti dalle farraginose regole decisionali europee, del tutto inadeguate per affrontare la competizione globale e la frammentazione del mercato mondiale.

Prima il rapporto e poi il discorso di Draghi al Parlamento europeo sono il manifesto politico di questa necessità, ma è anche l’ultima recriminazione per l’occasione lasciatasi sfuggire dopo la pandemia e la spinta alla centralizzazione/concentrazione che ne era derivata.

Ma adesso siamo al “si salvi chi può”. Gli Stati Uniti, consapevoli dell’impossibilità di mantenere la propria supremazia a livello globale, hanno scelto una sorta di “ripiegamento tattico” per rafforzare il mercato e le linee interne, limitando le loro incursioni nel mondo alle sole occasioni dalle quali trarre vantaggi sicuri.

L’Europa, o meglio l’Unione Europea, sembra in grado di maneggiare un’unica ipotesi in tempi brevi: quella del riarmo e delle spese militari come possibile traino economico e fuoriuscita temporanea dalla recessione.

Dopo aver compresso o massacrato per anni le proprie popolazioni (come nel caso dei paesi PIGS o della ex Germania Est) in nome del rigore di bilancio e della supremazia di banche e grandi gruppi industriali, ha scoperto – come detto molto brutalmente dal vicepresidente USA Vance alla Conferenza di Monaco – di avere anche seri problemi interni oltre a quelli sul piano internazionale.

Per tutto il resto, i tempi della exit strategy europea dall’angolo sarebbero molto più lunghi, ad esempio per “l’esercito europeo” che non si può certo costruire in termini “operativi” su due piedi.

Orfana della copertura statunitense la UE dovrebbe reinventarsi rapidamente, ma se riuscisse a farlo sarebbe una Europa ancora più reazionaria di quella attuale.

Vanno perciò combattuti con estrema determinazione tutti coloro che invocano una Europa più forte come contraltare al “suprematismo stronzo” di Trump. Non rappresentano certo una alternativa migliore per le classi popolari né per la democrazia, come abbiamo sperimentato negli ultimi trenta anni.

La frequenza con cui in Europa la parola guerra echeggia ormai in troppi discorsi ufficiali la rende poi ancora più inquietante.

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