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14/02/2025

Sanremo, lo show delle bare

La prima cosa che ho pensato guardando l’inizio del Festival di Sanremo 2025 è che Carlo Conti fosse così ingessato e spento da sembrare una bara. A mano a mano che proseguivo con la visione questa prima fugace impressione si è trasformata in una sensazione pervasiva che alla fine ha abbracciato ogni aspetto dello spettacolo.

La visione del mondo che pare emergere da questa prima puntata sanremese si costruisce a partire da innumerevoli elementi che abbracciano tutti i livelli della comunicazione simbolica: dai temi delle canzoni all’abbigliamento, dalle luci alla scenografia, dal filtro viola alla scelta dei fiori: tutto sembra parlare a partire da un punto di vista in disfacimento, tutto porta in profondità.

L’architettura complessiva fra i vari segni di morte emerge unitariamente nel senso profondo che esprimono le bare-personaggi durante tutto lo spettacolo: Carlo Conti sacrestano del cimitero elenca minuziosamente la lista dei morti da ricordare e invita a salire sul palco ospiti e interpreti che espongono la loro morte in vita, la loro personale e intima pena, consci o meno di farlo.

Jovanotti, reduce da due anni di inferno, ha un viso rasputiniano, balla arrancando “l’ombelico del mondo” con accanto nella mente il fratello morto, la madre depressa e la figlia malata; Gimbo Tamberi, una carriera spezzata, guarda con occhi intimoriti una platea che lo costringe a continuare la sua via crucis fino alle Olimpiadi di Los Angeles 2028; il dolore e l’amore sofferente per una madre (malata?) cantato da Simone Cristicchi, l’amore psichiatrico di Fedez, l’accettare di non essere un duro ma senza alcun tipo di riscatto di Lucio Corsi, il posticcio ritorno a un passato soffocante di Tony Effe o il passato filmico in bianco e nero di Achille Lauro.

Ognuno di questi elementi degli “attori” si incorpora alla generale organizzazione dei segni dello show, dando l’impressione che il teatro dell’Ariston sia una cripta di velluto viola, dove l’aria è appesantita dal profumo melenso dei fiori e in cui le bare, e non i cadaveri, recitano lo spettacolo.

Dico bare e non cadaveri perché ciò che esprimono non è terrore (non sono elementi fuori dalla natura) bensì un’oppressione sonnolenta da ambiente oppiaceo; i presenti hanno dolori e frustrazioni racchiusi privatamente con gelosia ma li aprono, perché è Sanremo, vampiristicamente verso il pubblico: un teatro del piangersi addosso commossi, un soffrire consapevolmente.

Quella che vediamo in scena sul palco dell’Ariston è un’accettazione del dolore intimo che sa di sonnifero mortale, un invito a coricarsi dolcemente nella propria bara abbracciati ai propri mali e alla propria condizione subalterna, che sia nei confronti della società, dei propri cari o di sé stessi.

La simbologia mortifera del fascismo è un elemento storicamente accertato. Per quanto si sia studiato che ruolo essa abbia avuto per i dirigenti, i militari e i fanatici dei regimi fascisti, forse non si è ancora indagato abbastanza su che visione della morte veniva invece progressivamente emergendo nel popolo sottomesso. Forse era qualcosa di vicino a una morte generale della volontà più che alla “morte per mezzo della volontà” delle élite di regime.

In conclusione, è proprio uno spettacolo nazionalpopolare di questo genere che svolge il ruolo di contraltare mediatico-comunicativo di ciò che questo governo sta producendo in termini di politiche repressive, autoritarie e antipopolari. Il messaggio che porta è il rimedio alla povertà indotta, il metodo con cui sobbarcarsi, nella propria bara, i mali necessari e correttivi, che cadranno su di lui. È un Sanremo pedagogico, mostra un metodo, spazza via la leggerezza perché i tempi saranno duri, ma ne dà anche il rimedio ideologico.

Se il periodo sanremese di Amadeus rappresentava il tentativo di capitalizzare sfruttando la leggerezza e il ridicolo e di mettere a valore per l’industria musicale e per quella mediatica radio-televisiva quindici anni di cambiamenti nelle relazioni sociali nell’epoca digitale, i tempi ora sono cambiati. Per l’appunto i tempi ora saranno duri e bisogna preparare la nazione pedagogicamente; è da questo che si spiega l’ossessione di questo governo per l’egemonia culturale anche a scapito dello share e dei trend.

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