“Per noi è un colpo al cuore, una cosa che ci ha
fatto molto male, non ci aspettavamo che anche l’insegna venisse portata
giù in così poco tempo”, racconta Sabrina Franchini,
ex operaia della Malaguti. “È come se con quella scritta avessero
portato via una parte di noi, come se avessimo capito che davvero non
c’è più nulla da fare”, spiega Franchini, che in fabbrica era anche
delegata Fiom.
La vicenda della crisi e della chiusura della Malaguti, l’azienda nata 80 anni fa leader mondiale nella produzione degli scooter,
era iniziata nella seconda metà del decennio scorso. Prima c’era stato
il licenziamento dei lavoratori a termine e degli interinali già dal
2009-2010. Poi ad aprile scorso c’era stato il fermo della produzione
con la cassa integrazione. I battenti del grande stabilimento hanno
chiuso definitivamente il 31 ottobre scorso e 170 persone hanno perso
definitivamente il lavoro, ognuna con 30 mila euro di buonuscita. Nello stabilimento di Castel San Pietro terme,
quello dell’insegna, sono rimasti pochi dipendenti, per occuparsi del
settore ricambi e smantellare tutta la catena produttiva. Presto,
questione di settimane, andranno via. Andranno in un locale più piccolo a
pochi chilometri di distanza e si occuperanno del settore ricambi
ancora per qualche tempo, giusto per onorare i contratti con i clienti
Malaguti. Lavoreranno come costrette in un polmone artificiale destinato
a spegnersi in pochi anni: la ditta è ormai clinicamente morta.
La decisione della famiglia emiliana degli scooter
era ormai irrevocabile da tempo: la crisi e probabilmente la mancanza di
una volontà di stare in mezzo al mare in questo momento di tempesta
hanno fatto il resto. I signori Malaguti sono esponenti di quel
capitalismo familiare made in Italy e, fino a quando hanno
voluto, sono stati degli ottimi padroni, tanto che l’azienda chiude con i
conti apposto. A disposizione della famiglia Malaguti ci sarebbero 40
milioni di capitale, un capannone gigantesco e un centro ricambi, un marchio
che se ben sfruttato potrebbe valere una fortuna. Tuttavia senza la
volontà di continuare da parte dei padroni c’era poco da fare. Gli
operai, anche contro i desideri del sindacato, dopo diverse proteste e
presidi, alla fine hanno preferito accettare i 30 mila euro, convinti
che, a tirare la corda, si sarebbe arrivati a perdere anche quelli.
A poco era servita l’opposizione della Fiom-Cgil,
che chiedeva di lottare per proseguire la produzione nello stabilimento
giallo e blu alle porte di Bologna. La fabbrica degli scooter era
diventata l’ultimo baluardo, una bandiera da difendere per salvare la produzione in una motor valley
emiliana diventata, più che altro, una valle di lacrime. La crisi
economica negli ultimi anni ha demolito un settore che per sopravvivere
sta facendo ampio ricorso ad ammortizzatori sociali,
lunghe trattative e a dolorosi tagli. Verlicchi, Moto Morini, Motori
Minarelli, Breda Menarini Bus, sono solo alcuni tra i nomi bolognesi
delle fabbriche di due o quattro ruote che in questo travagliato 2011
hanno conosciuto cassa integrazione, fallimenti, aste giudiziarie,
licenziamenti, delocalizzazioni all’estero e, nel migliore dei casi,
timide riprese della produzione o riassunzione solo di una parte di
lavoratori.
Così, l’impero dei motori nella pianura del socialismo reale
rischia di sgretolarsi. Tanto che quasi come la bandiera sovietica
esattamente 20 anni prima, in silenzio, anche questo vessillo del
motociclo è venuto giù senza troppe proteste e senza
guerriglie da parte degli operai. E poi di fronte a una crisi economica e
alla recessione, 30 mila euro di buonuscita sono stati un silenziatore
potente.Fonte.
A breve faremo la fine di Detroit.
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