DI COSTANZO PREVE
Un enigma storico da decifrare
1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre
2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti
della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi
economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi
osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che
Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di
condurre in porto per motivi elettorali”. Mi sembra evidente. E ancora:
“Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità
addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando
sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo
consenso, non essendoci alternative”.
A livello di
filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è
demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo
è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a
Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).
2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico
insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr.
Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un
capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24),
Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce
la scomparsa della verità delle relazioni sociali. Diagnosi a mio avviso
esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del
linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono,
quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di
oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza
sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli
economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo
finanziamento”.
Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono
ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.
3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia,
sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la
genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante,
anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci
offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo
della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi
agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo
semigratuito.
Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle
maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e
di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e
sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo
che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il
precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente
puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età
pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.
Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di
demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un
livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire
alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle
conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”,
rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così.
Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente
insoddisfacente.
4. Partiamo da un dato apparentemente secondario.
Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre
2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il
contrasto fra gli elevati consensi di cui gode il governo Monti e il
diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere
nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene
richiesto è uno sforzo solidale”.
Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e
al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo
della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD
il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo
brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”,
“la casta non è abbastanza colpita”, eccetera. Spiegare questa
schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo
culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo
all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e
sono diversi.
5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica
“scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse
l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai
avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un
certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile
riforma protestante in Italia. La riforma protestante, infatti, non
parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo.
Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente
all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il
loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non
aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né
di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti
palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali. Ma con l’arrivo
del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile
1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il
comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava
invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia
culturale sulle classi popolari.
Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua
relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava
spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della
realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su
di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei
privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia
sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del
capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze
positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx,
eccetera. Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e
blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che
questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e
coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata
approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia”
per usare una bella espressione di Paul Sweezy.
6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia
nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione
più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella
sua interezza temporale evolutiva. In questo ventennio le classi
popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel
senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente
mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con
cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso
processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.
In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il
1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di
massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare
radicalmente codice comunicativo ed egemonico. L’azionismo di massa,
combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è
certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso
sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un
occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed
estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato,
eccetera). Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga
parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una
babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile
resistere.
7. Possiamo sommariamente connotare la cultura
popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948
e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era
chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di
Scrittori e Popolo. Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è
diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez.
Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto
intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato
perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto
perché integrato.
Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il
ventennio dell’azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio
diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando
completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies
delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal
populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la
nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.
8. Il principale errore della metafisica di
“sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la
borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una
antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in
volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il
progressismo. In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di
tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione
progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle
merci viene chiamato “modernizzazione”. In termini marxiani, questo
significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi
intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della
coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi
rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.
Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski
e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben
preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo
capitalistico. Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base
di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del
capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate
e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia
conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti
“intellettuali d’avanguardia”. Questo schema corrisponde abbastanza
bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad
esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.
Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie
della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il
capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in
direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e
ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta
dell’iceberg).
L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988
progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione
italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo,
perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani
e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.
Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è
quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come
“sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare
sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per
connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per
rifarci all’espressione di un noto compositore.
9. La sindrome di demenza generalizzata insorge
quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione
sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in
alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme
diverse.
A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le
consuete forme paranoiche. La paranoia è infatti una malattia
soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia
soprattutto di “sinistra”. Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi
come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso
infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e
imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione
a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato
paranoico. E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono
essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da
bar. E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita
totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia
della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in
grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si
culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo,
leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste
sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi
moralistiche.
Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a
“sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo
schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva;
Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido
puttaniere, eccetera). Certo, le scemenze non violente sono pur sempre
meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema
della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente
perduta la chiave d’interpretazione. Ma non c’è nessuna chiave, dicono
gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna
abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi
masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave
interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di
demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.
10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed,
che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale
generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli
dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono
invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”. Ora, è inutile
assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e
comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il
modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non
conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e
strategia comunista.
Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che
esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le
libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due
secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare
per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale,
oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il
5%. I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i
lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere”
(le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di
globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi
apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire
poco. Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e
temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni
sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in
nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa
fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto
“occidentalizzato”.
In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità
della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e
paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale.
A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo. A
destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri
espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza
non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della
natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”,
sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso. I pazzi di
Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto
tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità
storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.
Costanzo Preve
Torino, 17 dicembre 2011
Fonte.
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