Il summit di Bruxelles, quello che doveva essere
decisivo per salvare l'euro, è stato un mezzo fallimento. Non solo
perché il Regno Unito ha voltato le spalle al resto dell'Europa. La
questione vera è che non sono state prese delle decisioni adeguate o -
come preferisce dire qualcun altro - coraggiose. Esiste sì un problema
di conti pubblici ma ben più pressante è il nodo finanziario che può
essere sciolto solo adottando misure che rilancino crescita e
occupazione. È un rompicapo, la cui soluzione sembra essere riposta alla
fine di un tunnel senza uscita.
I mercati hanno dato subito il loro giudizio: non
hanno promosso le misure della Banca centrale europea, né tanto meno
l'accordo, debole, che dovrebbe essere adottato sulla base di una
promessa agli inizi della primavera prossima. Gli slanci euforici dei
leader europei e di autorevoli editorialisti sono stati messi a tacere
dalla sentenza dei mercati. Perfino il presidente della Commissione
europea, José Manuel Barroso, ha dovuto rielaborare gli esiti del
summit: l'accordo siglato all'alba di venerdì, tra un piatto di merluzzo
e un pezzo di cioccolato, non è abbastanza. E, verrebbe da dire che
anche i tempi sono troppo lunghi in un gioco dove a tenere le fila del
comando sono gli speculatori: tre mesi sono un'eternità per chi è
abituato a decidere le sorti di una corporation (o di uno Stato) con
transazioni dalla durata di pochi millesimi.
Il premier inglese Cameron non ha sottoscritto l'accordo,
o meglio i partner europei non hanno accettato le condizioni di Londra
poste per "salvare" l'indipendenza della City, del centro finanziario.
Sebbene i cittadini britannici, in maggioranza, si siano schierati dalla
parte di Cameron, il premier ha inteso tutelare le operazioni dei
finanzieri più che la sovranità dei sudditi della Corona.
Ad ogni buon conto, bisogna aspettare qualche mese per capire chi si è mosso nella direzione giusta.
Aggiustamento in navigazione. L'accordo di
Bruxelles, forgiato sulla lettera Merkel-Sarkozy, può essere considerato
solo un aggiustamento in navigazione. Una toppa che, purtroppo, non può
garantire l'inaffondabilità del naviglio Europa.
Le linee guida
dettate da Berlino non sono adattabili a tutti i paesi: lo vediamo in
Italia, come in Grecia. Atene è strozzata lentamente, sempre più
dolorosamente dalla troika, il mostro tricipite Ue-Bce-Fmi, che ha
chiesto al premier tecnocrate Papademos un'ulteriore sforbiciata di 150
mila posti di lavoro entro il 2015: il modo più rapido per ridurre la
spesa pubblica (il modo più rapido per garantire il pagamento degli
armamenti forniti in larga parte dalla cinica Germania e dalla spietata
Francia). In molti hanno già ceduto alla pressione: i greci rivorrebbero
la dracma, si accontenterebbero di una moneta svalutatissima pur di
aver indietro la propria vita.
E bisogna fare i conti con la violenza serpeggiante:
fino a quando il coperchio reggerà l'ebollizione dei movimenti
anarchici che stanno battendo i primi colpi? Lo vediamo anche in Italia,
dicevamo. Sono solo avvisaglie e per fortuna molto circoscritte ma i
proiettili destinati a sindaci e ministri, il pacco bomba esploso nelle
mani del direttore di Equitalia, sono segnali allarmanti. Sono cose che
succedono quando si toccano le pensioni, il lavoro, il sociale e ci si
dimentica di interferire nei grandi capitali, di guastare il banchetto
ai fornitori di armi che si ingrassano con le inutili "missioni di pace"
e l'altrettanto inutile rinnovo dell'arsenale militare (e parliamo di
una somma pari alla manovra in corso). Di sicuro, se l'Europa fallirà
(non c'è da augurarselo) ciò non accadrà a Bruxelles, ma nelle strade
delle città. Perché - mutuando da Sarkozy - se l'Europa nata per
garantire la pace e la sicurezza dei propri cittadini ne diventa
l'aguzzino, allora l'esperimento sarà fallito.
Fonte.
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