Non
c’è pace per Baghdad: quattordici ordigni piazzati ai quattro angoli
della città hanno provocato questa mattina oltre 50 morti e quasi 200
feriti. Un atto che, a un anno dalla creazione del governo Maliki e a
qualche giorno dalla partenze delle truppe statunitensi , getta l’Iraq
nel baratro di una nuova crisi politica. Settarismi e divisioni interne
tra sunniti e sciiti fanno traballare l’esecutivo. È di ieri la notizia
di un mandato d’arresto per attività terroristiche che il premier Nuri
al-Maliki ha emanato contro il vicepresidente iracheno, Tariq
al-Hashimi.
Al-Hashimi, secondo
Maliki, sarebbe responsabile di aver organizzato l’attentato contro la
sede del Parlamento iracheno lo scorso novembre e di aver ordito un
colpo di stato, volto a rovesciare l’attuale governo di unità
nazionale.
Ieri il premier iracheno
ha chiesto ufficialmente al governo del Kurdistan di consegnare
al-Hashimi. Il vicepresidente è da qualche giorno ad Erbil, città curda
nel Nord dell’Iraq. Una presa di posizione, quella di Maliki, che
arriva dopo che il partito sunnita di al-Hashimi, Iraqyia, aveva deciso
di sospendere la partecipazione dei propri rappresentanti alle sedute
parlamentari. “Se i ministri di Iraqyia – ha detto Maliki – non
parteciperanno al prossimo Consiglio dei Ministri, nomineremo dei
sostituti”.
Il mandato d’arresto
giunge a poche ore dal ritiro ufficiale delle truppe americane dal
suolo iracheno e ha subito messo in allarme l’amministrazione
statunitense: il vicepresidente americano, Joe Biden, ha immediatamente
contattato Maliki esprimendo preoccupazione per una possibile
esplosione dei settarismi interni. Da tempo gli Stati Uniti lavorano
per la creazione di un governo stabile di unità nazionale, tra
maggioranza sciita e minoranze sunnita e curda, un governo che sia in
grado di attenuare le tendenze filo-iraniane del partito di Maliki. Ma
il sistema interconfessionale che domina in Iraq non appare in grado di
reggere.
Il vicepresidente
al-Hashimi ha immediatamente risposto alle accuse mosse da Maliki,
definendole una strategia fabbricata appositamente per mettere
nell’angolo gli schieramenti politici non sciiti. E aggiungendo di
essere pronto ad affrontare un processo se questo si terrà in Kurdistan
e chiedendo alla Lega Araba di supervisionare l’inchiesta a suo
carico.
Simile l’intervento del vice
premier, Saleh al-Mutlak, anch’egli esponente del partito sunnita
Iraqyia, che ha espresso il concreto timore dell’esplosione di un nuovo
conflitto confessionale, la cui causa andrebbe ricercata
nell’amministrazione Maliki: una gestione del potere, ha spiegato
al-Mutlak, che punta all’oppressione della minoranza sunnita da parte
del governo centrale, una nuova dittatura dopo la caduta del regime di
Saddam Hussein nel 2003.
A
preoccupare la comunità internazionale è una possibile
“balcanizzazione” del Paese, diviso internamente tra regioni e partiti
di differente estrazione confessionale. Diverse province, comprese
quelle a Sud a maggioranza sciita, chiedono una maggiore autonomia,
simile a quella concessa al Kurdistan. Richieste che potrebbero avere
come unica conseguenza un ulteriore indebolimento di un’amministrazione
centrale già traballante.
Oltreoceano,
gli Stati Uniti mantengono gli occhi ben aperti sulla crisi politica
di Baghdad. Il presidente Obama aveva accolto la scorsa settimana il
premier Maliki a Washington per il passaggio ufficiale di consegne in
ambito di sicurezza interna. E ora, dopo la partenza delle truppe
americane, si trova di fronte un governo incapace di gestire la propria
sovranità, facile preda delle ambizioni regionali dei potenti vicini:
Iran, Turchia e Arabia Saudita.
Naturalmente
a preoccupare di più Washington è la forte influenza che Teheran
esercita su Baghdad, un’influenza dovuta alla vicinanza del premier
sciita Maliki al presidente iraniano Ahmadinejad e alle consistenti
relazioni economiche tra i due Paesi. “Se l’Iraq è la chiave di ascesa
dell’Iran come potenza regionale, l’Iraq è essenziale anche per gli
Stati Uniti, i suoi alleati arabi e la Turchia per contenere l’Iran”,
ha dichiarato Stratfor, agenzia di consulenza per la sicurezza globale
dell’amministrazione Obama.
È
evidente come gli Stati Uniti sentano l’impellente necessità di evitare
che un Paese ancora instabile come l’Iraq finisca nelle mani di una
potenza nemica degli interessi occidentali quale l’Iran. Ma la longa
manus di Teheran appare sempre più vicina a Baghdad. In primo luogo a
causa degli stretti legami tra il presidente iraniano Ahmadinejad e
Moqdata al-Sadr, estremista sciita e capo delle milizie impegnate dopo
il 2003 contro l’occupazione militare statunitense: il partito di
al-Sadr fa parte della coalizione di governo e il suo appoggio politico
è indispensabile alla maggioranza guidata da Maliki.
Senza
contare i legami economici a doppio filo tra i due Paesi, relazioni
stabili in particolare nel settore energetico. Iraq e Iran hanno creato
commissioni bilaterali per la gestione di petrolio e gas naturale e
firmato importanti accordi economici, tra cui quello per la costruzione
entro il 2013 di un gasdotto che attraverserà Iran, Iraq e Siria.
Attualmente, Teheran è il secondo partner economico di Baghdad, dopo la
Turchia.
Il governo iracheno non può
permettersi di far saltare tali legami con il vicino Iran. Esempio di
tale necessità è la votazione alla Lega Araba in merito alle sanzioni
nei confronti di Teheran: l’Iraq non solo si è astenuto, ma non ha mai
applicato le misure imposte dalle Nazioni Unite.
E
a trarne giovamento è proprio l’Iran, che può giocare a suo favore la
carta dell’instabilità che oggi strangola la politica interna irachena.
Approfittando della partenza delle forze di sicurezza statunitensi.
Fonte.
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