I media stanno cercando di farci credere che in Ucraina la gente sia
disposta a fare a botte pur di poter essere ammessa nel paradiso
europeo, che sarebbe sempre il migliore dei mondi possibili, nonostante
ciò che sta capitando ai Paesi dell'Europa del Sud. Queste
mistificazioni possono sempre catturare una parte consistente
dell'opinione pubblica, ancora disposta a vedere nell'Unione Europea un
tutore magari troppo severo, ma giusto.
Mesi e mesi di riflettori mediatici sulla vicenda della decadenza
parlamentare del Buffone di Arcore, hanno infatti sortito il programmato
effetto-distrazione nei riguardi di notizie che avrebbero potuto aprire
squarci sugli effettivi rapporti di potere attualmente vigenti in
Europa. L'effetto-distrazione non va inteso solo nel senso banale di
mero diversivo, dato che l'icona autorazzistica del Buffone è funzionale
a rafforzare quel pregiudizio che considera la corruzione e
l'illegalità come vizi tipicamente nazionali, senza percepirne i legami
con la situazione di sottomissione coloniale.
Questo effetto-distrazione si è sicuramente verificato nel caso della
rinegoziazione da parte della Germania circa la normativa europea sui
livelli di emissione di biossido di carbonio da parte degli autoveicoli.
La Germania ha ottenuto quasi tre anni di proroga
per adeguarsi ai nuovi livelli di emissione, e ciò in cambio di
generiche promesse di dare impulso alla produzione di veicoli elettrici.
Il fatto potrebbe servire a riconfermare quanto già si sapeva, e cioè
che nell'Unione Europea ogni vincolo è negoziabile e rinegoziabile per
alcuni Paesi, mentre non lo è per altri.
Ma l'aspetto principale della vicenda non ha riguardato l'ovvio e
consolidato sistema dei due pesi e due misure, bensì il caso di un
finanziamento di quasi un milione di euro al partito
del cancelliere Angela Merkel da parte della BMW. Si tratta proprio di
quella casa automobilistica tedesca che si era maggiormente esposta per
ottenere una proroga per l'adeguamento della Germania ai nuovi livelli
di emissione di biossido di carbonio. A molti commentatori è risultato
evidente il nesso consequenziale tra il finanziamento della BMW e
l'attivismo del governo tedesco per strappare alla UE una proroga
sull'adeguamento dei livelli di emissione, tanto che si è cominciato a
parlare, più o meno velatamente, di un caso di corruzione.
Il "virtuoso" governo Merkel viaggia da tempo alla media rassicurante di
uno scandalo all'anno, e non vi è dubbio che riuscirà a restare in
piedi anche dopo quest'ultimo. Gli stessi commentatori che hanno
ipotizzato la corruzione, hanno poi tenuto a sottolineare la difficoltà
di dimostrarla, dato che il finanziamento è arrivato dopo la scadenza
elettorale che ha visto vincitore il partito della Merkel; come se i
pagamenti, per essere tali, dovessero essere sempre anticipati. La
foglia di fico è molto ristretta, se si considera che il lobbying della
BMW sull'argomento, e le relative pressioni sul governo tedesco, erano
note da almeno sei anni. Nel 2007 la stessa BMW, insieme con la Porsche,
aveva ottenuto addirittura una sorta di sarcastico "premio" simbolico per meriti di lobbying, per aver ostacolato con successo le nuove normative sul biossido di carbonio.
Le nuove regole del lobbying nell'Europa del dopo Trattato di Maastricht furono oggetto di uno studio da parte di Mark Gray,
un interessante personaggio che da decenni fa revolving door tra la
Commissione Europea ed il settore privato; in pratica si tratta di un
lobbista privato a tempo pieno, che ogni tanto va anche a ricoprire
incarichi pubblici.
Gray, oltre che un pratico, è anche un teorico del lobbying, e si è dato
da fare per dimostrare che Maastricht aveva ridisegnato completamente
le regole a riguardo, aprendo spazi nuovi e precedentemente impensabili.
La pubblicazione di Gray
del 1999 ha assunto ora il valore di un testo profetico. Maastricht ha
in pratica legalizzato la corruzione, e non solo attraverso il pieno
riconoscimento del ruolo del lobbying, ma soprattutto aprendo ai
lobbisti la possibilità di insediarsi negli organismi direttivi
sovranazionali, cioè quelli che dettano le direttive ai governi. Oggi è
quindi la politica a trovarsi in posizione di supina sudditanza nei
confronti del lobbying.
Secondo alcuni commentatori, il Trattato di Maastricht sarebbe stato lo
strumento della Germania per stabilire una propria supremazia in Europa.
Si tratta di un dato reale, ma probabilmente questo sub-imperialismo
tedesco è stato solo un effetto secondario. Maastricht ha costituito
anzitutto il canale attraverso il quale si è insediata in Europa la
principale lobby mondiale della finanziarizzazione e delle
privatizzazioni, cioè il Fondo Monetario Internazionale; quella
super-banca privata che utilizza i finanziamenti pubblici di numerosi
Stati, e che vanta lo status giuridico di agenzia ONU. Oggi il FMI
rappresenta il principale attore di quella "Troika" che domina sulla
scena europea, ed il FMI ha notoriamente la sua sede centrale a
Washington.
Paradossalmente è stato un documento del FMI, pubblicato alla fine del
2009, a "denunciare" l'attuale strapotere del lobbying finanziario. Il
documento del FMI aveva un titolo suggestivo: "Per un Pugno di Dollari".
Attraverso modelli matematici, i ricercatori del FMI hanno dimostrato
che vi era un nesso causale preciso tra la crescente influenza del
lobbying finanziario sulla politica e la sovraesposizione debitoria che
ha condotto alla crisi del 2008.
Ma qualcuno ha già notato che quel documento del FMI è a doppio taglio:
mentre sembra "denunciare" ciò che già si sapeva, esso di fatto traccia
un paradigma ed un formulario dell'esercizio del potere del lobbying
sulla politica. Come il saggio di Gray, anche questo documento del FMI
tende a stabilire le basi di una scienza del lobbying. Infatti dal 2009
non vi è stato alcun arretramento dell'influenza del lobbying, ed anzi i
governi nazionali si sono sempre più riempiti di lobbisti di
professione. Non a caso, in Italia proprio in questi giorni è in atto
anche una riforma del Ministero degli Esteri, che lo sta riconvertendo in una vera e propria agenzia privata per favorire le delocalizzazioni produttive.
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