E' abbastanza evidente che Livorno fa davvero una grossa difficoltà ad intravedere un futuro. L'assenza di progettazione, assieme al pieno di retorica, presente da un quarto di secolo matura oggi i propri frutti velenosi.
Pochi sanno che nel 1987, quindi più di un quarto di secolo fa, l'allora amministrazione comunale si rifiutò di far inserire Livorno nell'ambito della aree a declino industriale sostenute e finanziate dalla comunità europea dell'epoca. Serpeggiava infatti un senso di disagio, più forte dell'attrazione dei finanziamenti per le aree di crisi, nel dover ammettere pubblicamente la fine di un modello industriale. Modello che era entrato in crisi conclamata durante gli anni '80 con la disoccupazione dell'epoca che schizzò da 4.000 senza lavoro all'inizio di quel decennio a 25.000 alla fine (secondo i criteri statistici dell'epoca). Sappiamo come è andata a finire: al permanere della retorica "operaia e di sinistra", ancora ottima per il consenso generale, nei primi anni '90 corrispondeva un processo di deindustrializzazione della città inondata di cemento, di capitali liberati dall'industria, di liquidazioni, di prepensionamenti e di pensioni rivalutate.
Quando, alle elezioni del 1992, il Pds e Rifondazione assieme prendono più voti del Pci da solo per la retorica si tratta della conferma delle radici operaie e comuniste della città. Mentre, nel mondo reale, significava che attraverso i partiti e i soggetti tradizionali era passata silenziosamente una ristrutturazione, nell'asse economico-sociale cittadino, che era vissuta come soddisfacente. Il Pds, poi Ds, è stato il partito che ha comunque meglio capito questa trasformazione. Mantenendo il proprio potere su basi nuove. Mentre Rifondazione, guardando questo dato all'indietro, ha parlato politicamente un linguaggio che non esisteva già più all'epoca, o meglio era privo di riscontro reale, finendo per contrarsi fino alla dimensione della forma politica testimoniale.
Ma cosa è Livorno oggi, dopo un ventennio di ristrutturazioni industriali, e un peso incomparabilmente minore del salario "produttivo" in città anche rispetto a 10 anni fa, e in pieno rallentamento del settore immobiliare?
La recente classifica del Sole 24 ore sugli indici di benessere delle città, senza entrare negli aspetti metodologici, qualcosa aiuta a capire. Prima di tutto stiamo parlando dell'Italia, di un paese che sta scendendo, a livello di Pil, nelle classifiche di ricchezza europee e mondiali. Un paese che ha indici piuttosto bassi nella creazione di tecnologie e nella riproduzione del sistema formativo, entrambi il petrolio dell'oggi e del domani, e che trova Livorno scendere nella speciale classifica interna del benessere. Insomma, l'Italia è in caduta libera e Livorno scende nella classifica interna di questo paese.
Paragonarsi al passato e andare a vedere la classifica di quindici anni fa non ha senso. Alla fine degli anni '90 essere al 47esimo posto, come è accaduto, nella classifica del Sole significava maggiore benessere del trentunesimo di oggi. Il crollo dell'economia italiana, una volta entrati nell'euro, e gli choc della crisi finanziaria, nonché la riduzione drammatica dei livelli salariali, fanno valere questo 31esimo posto molto meno del 47esimo del '99.
La nostra posizione nella crisi italiana ci avvicina quindi verso zone economiche dell'est europeo, anche per la caratteristica patriarcale del potere livornese, la cui emancipazione dai drammi strutturali sarà, se tutto va bene, questione della metà del secolo nuovo. Basta parlare con le badanti moldave o ucraine che sono a Livorno per capire quanto, dalle nostre parti, cominciano a sentire aria di casa. Anche perché, a livello di Pil pro capite, Livorno è scesa dal 45esimo al 55esimo posto in Italia, tra i capoluoghi di provincia, in tre anni. Quanto più la crisi ha inciso, tanto più Livorno è precipitata. Di riflesso si capisce non ci sono capitali: il minor tasso di creazione di imprese in Toscana ce l'ha proprio Livorno. Visto che per il prossimo lustro, se va tutto bene, si prevede una crescita zero in Italia, con contrazione ulteriore di posti di lavoro, si comprende come la crisi, se le cose restano in questo modo, è solo destinata ad accentuarsi.
Sul tasso di innovazione è significativo il fatto che a Trieste, non proprio il centro dello sviluppo europeo, ci sia, secondo lo stesso Tirreno "il doppio del doppio del doppio" di start-up innovative rispetto a Livorno. E qui non è solo questione di capitali: il collasso del sistema formativo locale, più pericoloso per il futuro della chiusura di tutte le fabbriche, indica che Livorno non riesce a produrre ricchezza nella nuova economia della conoscenza (e non a caso si passa dal 45esimo di pil procapite al 55esimo in tre anni..). D'altronde questa non è solo la città dove, per un progetto, si è respinti dalla provincia e assunti alla Nasa come è accaduto. E' anche la città con il più basso tasso di laureati della Toscana e un tasso molto alto di abbandoni scolastici di valore nazionale. Ed è solo nel mondo a parte della politica livornese che, di fronte all'analisi pubblica di dati che inchioderebbero qualsiasi classe dirigente alle dimissioni, si accusi di fare "filosofia". Pensando di cavarsela con qualche luogo comune del popolino dell'epoca pre-industriale.
La realtà parla un altro linguaggio: Prato, con la sua strage, potrebbe essere il futuro di Livorno solo nel migliore dei casi. Capitali, logistica, flessibilità, territorio dedicato al (si fa per dire) sviluppo. Fiscalisti, avvocati, immobiliari, ricercatori, istituzioni entro la programmazione di distretto. Questo è il macrolotto pratese dove è avvenuta la strage. Mito della "crescita" destinato ad infrangersi nella cruda realtà dell'accumulazione. Bene, Livorno non è in grado neanche di garantirsi quella miseria.
In troppi stanno scherzando col fuoco, sul nostro territorio, rispetto alla portata della crisi e ai suoi drammatici effetti futuri. Parlando di alleanze, di sondaggi, di personaggi. Ma i dati parlano chiaro: auguri vivissimi a chi pensa che sia possibile galleggiare, magari nascondendosi entro la retorica della discontinuità, per il prossimo lustro. E' a rischio persino la sopravvivenza del triangolo mattone-porto-banche, che ha "regolato" la creazione della voragine economica della città. Qui ogni pezzo del sistema va estratto per essere rimesso entro un sistema del tutto nuovo. Pena l'estinzione della città. Il resto, compresa l'illusione di stare in qualche nicchia protetta, è chiacchiera mentre solo il senso dell'urgenza è realismo.
per Senza Soste, Ian St. John
3 dicembre 2013
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