di Michele Paris
L’attacco al
Parlamento libico di domenica scorsa e la sospensione della stessa
assemblea legislativa dietro decisione di un ex generale dell’esercito
ha gettato il paese nordafricano ancora più nel caos e reso sempre più
concreto lo spettro della guerra civile dopo quasi tre anni dalla
“liberazione” dal regime di Gheddafi favorita dalle bombe della NATO.
Dopo
l’operazione contro il Parlamento per mano di alcune milizie fedeli al
generale Khalifa Hifter, un altro generale alleato con quest’ultimo ha
annunciato in diretta televisiva che i 60 membri dell’assemblea
costituente libica verranno investiti del potere legislativo, mentre
l’attuale governo funzionerà come esecutivo di emergenza.
Lo
stesso portavoce delle forze protagoniste dell’assalto al Parlamento,
generale Mokhtar Farnana, ha poi negato che quello andato in scena
domenica sia un colpo di stato, ma ha affermato che la decisione è stata
presa per evitare che la Libia diventi “un incubatore del terrorismo”.
Bersaglio dell’operazione sono stati in particolare i parlamentari
islamisti, accusati di avere favorito il proliferare di milizie
estremiste nel paese.
Nella giornata di lunedì, il governo libico
uscente ha però respinto le direttive provenienti dal generale Hifter,
condannando l’attacco al Parlamento che avrebbe fatto 2 morti e più di
50 feriti. Inoltre, il comandante delle forze armate regolari ha chiesto
ad altre milizie - questa volta di ispirazione islamista - di
dispiegare i propri uomini a Tripoli per combattere le formazioni
golpiste guidate da Hifter, con il rischio di innescare un conflitto
interno ancora più sanguinoso.
Ad aggiungere confusione al già
caotico scenario, alcune fonti governative hanno rivelato che ad
appoggiare Hifter sarebbero state due milizie - al-Qaaqaa e Sawaaq, le
due maggiori attive a Tripoli - che avevano finora operato a fianco
dell’Esecutivo per cercare di mantenere l’ordine, come è ormai pratica
comune nella Libia del dopo-Gheddafi.
Il Parlamento che Hifter
sostiene di avere sciolto appare in stato di completa paralisi e diviso
tra fazioni islamiste e secolari, a loro volta sostenute da svariate
milizie. Recentemente, un nuovo primo ministro era stato scelto dai
deputati islamisti ma la nomina è stata definita illegittima dai loro
rivali, così che il premier ad interim non ha ancora formato il nuovo
gabinetto. Secondo un deputato sentito dalla TV libica, l’attacco del
fine settimana sarebbe avvenuto precisamente per impedire che il
Parlamento ratificasse la formazione dell’esecutivo, dopo che proprio
domenica i suoi membri avevano ricevuto la lista dei ministri proposti
per farne parte.
I
gruppi messi assieme dal generale Hifter sono legati alle milizie di
Zintan, nella Libia occidentale, e rappresentano la forza principale
nelle file anti-islamiste di Tripoli. L’altra forza dominante nella
capitale è costituita invece da formazioni islamiste, provenienti in
gran parte da Misurata. Già venerdì scorso, Hifter e i suoi uomini
avevano orchestrato un’operazione contro le milizie islamiste a Bengasi,
in quello definito dalle autorità centrali come un altro tentativo di
golpe che ha fatto 70 morti.
Personaggio controverso e dal
passato oscuro, Hifter era un fedelissimo di Gheddafi prima di
defezionare e fondare il Fronte Nazionale di Salvezza per la Libia. Il
generale si sarebbe poi trasferito negli Stati Uniti, vivendo per anni
in Virginia, a breve distanza dal quartier generale della CIA. Tornato
in patria dopo l’assassinio di Gheddafi, Hifter era stato protagonista
di un video circolato lo scorso mese di Febbraio, nel quale in sostanza
annunciava un colpo di stato in Libia, senza però riuscire a dare
seguito alle proprie minacce.
Visti i suoi legami con la CIA, che
aveva selezionato l’ex generale di Gheddafi per favorire la nascita di
una forza pronta a rovesciare il regime, è dunque possibile che Hifter
sia stato utilizzato da Washington - o da fazioni all’interno
dell’apparato militare o dell’intelligence americano - per provare un
colpo di mano nel paese nordafricano con l’obiettivo di riportare un
minimo di ordine e infliggere un colpo alle formazioni islamiste o,
quanto meno, di testare le capacità dello stesso Hifter all’interno del
confuso panorama politico libico.
Quel che appare certo, in ogni
caso, è che il precipitare della situazione in Libia è la diretta e
drammatica conseguenza dell’intervento “umanitario” occidentale del
2011, responsabile della totale destabilizzazione non solo di uno dei
paesi più stabili e (relativamente) prosperi del continente ma anche
dell’intera regione.
Il dopo-Gheddafi in Libia è sfociato nello
strapotere di una miriade di milizie armate violente, spesso di
ispirazione fondamentalista quando non apertamente affiliate al
terrorismo internazionale, sulle quali Washington, Parigi e Londra
avevano contato per dare la spallata al regime.
Una volta
ultimate le operazioni militari, queste stesse milizie si sono rifiutate
di deporre le armi e, approfittando del vuoto di potere venutosi a
creare in un paese praticamente senza una società civile o
un’opposizione organizzata, hanno creato proprie zone di influenza,
talvolta collaborando con le forze armate ufficiali e quelle di polizia
ma, soprattutto, dando vita a continui scontri interni per il controllo
del territorio.
Nelle regioni orientali, in varie occasioni le
milizie si sono anche impadronite dei pozzi petroliferi sottraendoli al
controllo del governo centrale, mentre qualche mese fa una di esse è
stata addirittura protagonista del rapimento dell’ex primo ministro, Ali
Zeidan, accusato di complicità con il raid americano che aveva portato
alla cattura del leader di al-Qaeda, Anas al-Liby.
Il succedersi
degli eventi in Libia rappresenta così un motivo di grave imbarazzo per i
governi che hanno appoggiato la cosiddetta “rivoluzione democratica”
contro il regime di Gheddafi, nonostante i tentativi dei media ufficiali
di occultare le implicazioni dell’impegno occidentale in questo paese.
L’ambiguità
dell’approccio dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti al
fondamentalismo islamico è apparsa infatti in tutta la sua evidenza
proprio in Libia, così come i pericolosi effetti collaterali di un
politica sconsiderata, ugualmente riscontrabili nella crisi in Siria.
Washington,
in sostanza, ha appoggiato finanziariamente e militarmente formazioni
estremiste in Libia per condurre la propria guerra contro Gheddafi,
finendo poi per subire le conseguenze dell’inevitabile rafforzamento di
questi stessi gruppi armati, con effetti sia sugli interessi americani -
come dimostrò clamorosamente l’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore
USA Christopher Stevens nel 2012 per mano di fondamentalisti sunniti -
sia sulla stabilità di Tripoli e di altri paesi dell’Africa
sub-sahariana, come il Mali o la stessa Nigeria.
La Libia,
infine, rappresenta da qualche tempo un autentico serbatoio di
guerriglieri estremisti per il conflitto in corso in Siria, utilizzati
più o meno tacitamente come forza d’urto dagli Stati Uniti e dai loro
alleati che, perciò, sembrano qualcosa di più che semplici spettatori
passivi di un flusso di armi e uomini a cui ufficialmente sostengono di
opporsi.
Ciò è risultato evidente, tra l’altro, da una rivelazione pubblicata a fine aprile dalla testata on-line The Daily Beast,
secondo la quale da quasi un anno una base creata nel 2011 dalle Forze
Speciali USA non lontana da Tripoli sarebbe finita nelle mani di gruppi
armati affiliati ad al-Qaeda. I reparti scelti americani che da questa
struttura avevano operato al fianco di gruppi fondamentalisti per
abbattere il regime di Gheddafi ne hanno perso il controllo la scorsa
estate dopo almeno due precedenti incursioni da parte dei jihadisti.
I
militanti islamici che ora la controllano, dopo avere beneficiato delle
operazioni NATO in Libia, sono attivi nel reclutamento e invio di
guerriglieri in Siria, dove condividono di fatto l’obiettivo immediato
degli Stati Uniti nel paese mediorientale, vale a dire la rimozione del
regime secolare di Bashar al-Assad.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento