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20/08/2014

Il riot di Ferguson

Bisognerebbe scandagliare meglio le caratteristiche sociali e i soggetti reali in campo che agiscono nelle dinamiche che muovono le vere e proprie rivolte in atto in alcune città degli Stati Uniti dopo il brutale omicidio poliziesco del giovane nero Michael Brown.

Una esigenza che ci consentirebbe di andare oltre le cronache quotidiane della abituale dis/informazione dominante la quale – in alcuni casi limite – presenta questi sommovimenti sociali come una sorta di fenomenologia endemica con cui il capitale deve imparare a convivere nell’esercizio del suo moderno dominio reale sulla società e sugli individui.

A questo proposito – come documentazione proveniente dagli U.S.A. – segnaliamo un  link di informazione dal sito della coalizione No War Answer.


Una rivolta tutt’altra che ordinaria

L’uso della Guardia Nazionale per sedare le dure proteste della comunità nera rappresenta l’alto livello delle tensioni in atto e, nel contempo, la determinazione delle autorità locali e federali statunitensi nel voler reprimere ad ogni costo la sacrosanta mobilitazione in atto non solo nella città di Ferguson ma anche in altri importanti centri del paese.

Si tratta, dunque, come è già accaduto in anni precedenti, sempre a causa di soprusi polizieschi contro persone delle comunità di colore, di un riot che sta scuotendo la calma (apparente) di queste città degli Stati Uniti.

Un riot contro cui l’apparato repressivo statale risponde con una modalità di guerra interna come testimoniano non solo le pratiche poliziesche di contrasto ma anche la strumentazione (dalle armi da guerra ai super blindati corazzati fino alle tecniche di controguerriglia dispiegate nelle piazze come il coprifuoco) in uso alle forze dell’ordine statunitensi le quali sono le stesse utilizzate dai marines delle truppe di occupazioni U.S.A. nei quartieri delle città irachene ed afgane.

Ma tutto ciò non è bastato a riportare l’ordine nonostante al bastone della repressione militare il Dipartimento della Giustizia americana ha accoppiato una demagogica promessa di una possibile inchiesta indipendente sui fatti che hanno causato la morte di Michael Brown.

Siamo, quindi, in presenza di una consistente materia sociale in movimento che, periodicamente, riemerge con il suo portato di violenza e di odio verso i simboli del potere, i luoghi del consumo e della grande distribuzione commerciale.

Luoghi e simboli negati alla fruizione di massa anche a causa del corso della crisi economica che anche nelle cittadelle del cuore dell’imperialismo sta causando una polarizzazione sociale sempre più netta ed una più approfondita segmentazione/differenziazione degli e negli strati sociali.

A questi dati oggettivi – comuni a gran parte delle metropoli del centro imperialista – si aggiunge la permanenza di una questione razziale fortemente discriminatoria la quale, con buona pace di tutte le chiacchiere sull’integrazione e la tolleranza tipici delle democrazie del capitalismo maturo, continua ad emarginare, disciplinare e super sfruttare larghi strati di popolazione negli Stati Uniti e nei principali paesi dell’occidente.

Una razzializzazione (per usare un termine coniato dagli attivisti antirazzisti di oltre oceano) che sottolinea l’intrinseca connessione/armonizzazione del razzismo con il funzionamento del processo di valorizzazione nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

Per tale motivo le rivolte in atto a Ferguson sono, senza ombra di dubbio, scene di lotta di classe metropolitana alle quali bisogna guardare con attenzione, senza spocchia eurocentrica, cercando di cogliere, pur nella contraddittorietà e confusione di questi avvenimenti, il filo rosso del conflitto sociale e la necessità del cambiamento radicale dello stato di cose presenti.

I fatti di Ferguson mostrano che la lotta al razzismo ed al complesso delle politiche di assoggettamento dei settori deboli della società non può essere interpretata come un funambolico progetto culturale o una mera battaglia per le idee.

Questa impostazione – cara a larga parte della sinistra occidentale ed alle componenti religiose (sia esse cattoliche o islamiche) – è sempre stata foriera di sconfitte politiche quando è riuscita ad imporsi come progetto politico egemonico.

La lotta al razzismo ed all’intero corollario di questioni a cui è legata questa patologia del capitale deve – a Ferguson come altrove – essere tutt’uno alla critica continua al colonialismo ed alle varie forme di schiavitù con cui si sostanzia il comando capitalistico a scala internazionale, sulla forza lavoro e sull’intera società, nell’epoca della competizione globale.

Ridurre l’opposizione al razzismo al rango del solidarismo significa espungere e censurare tutte le potenzialità antisistemiche che animano, comunque, questi riot.

Siamo, invece, convinti che in tali snodi del conflitto può enuclearsi una tendenza politica ed organizzativa che può ricostruire il senso e la prospettiva di una riqualificata opzione anticapitalista capace di superare, nel gorgo della lotta comune, steccati e divisioni razziali.

Particolarmente interessante e politicamente significativo se ciò avvenisse nel ventre della bestia statunitense!

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