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21/07/2015

Tutti gli errori di Alexis

Da tempo cerco di dimostrare a chi mi legge che la politica è uno specialismo, che richiede una preparazione che non si può improvvisare. In questi giorni cade a taglio il caso Tsipras: dalla sua analisi a freddo possiamo ricavare indicazioni sul tipo di specialismo che è la politica e sulle qualità che richiede.

Partiamo da alcune considerazioni generali ed astratte, per poi applicarle al caso greco. Rovesciando la celebre frase di Clausewitz possiamo dire che “La politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”. La politica, infatti, è prima di tutto conflitto, auspicabilmente non armato e non violento, ma pur sempre conflitto. Senza conflitto non c’è politica, per cui chi si trovi a decidere deve innanzitutto fare una valutazione approfondita della situazione, per capire se sia opportuno o no ingaggiare il combattimento o cercare di disimpegnarsi. Il che significa valutare se ci siano o meno ragionevoli probabilità di vincere o, quantomeno, di ottenere un risultato parzialmente positivo. Nel caso in cui non ci sia nessuna possibilità di resistere, ovviamente, conviene cercare subito un accordo.

Per stimare quali siano le possibilità di un esito almeno parzialmente positivo, occorre considerare quale sia il rapporto di forze, dunque quali siano i punti deboli propri e quelli dell’avversario e quale sia l’eventuale danno del conflitto per se, ma anche per il nemico. Sulla base di queste valutazioni occorrerà poi elaborare, una strategia, che significa definire il risultato finale cui si punta e, sulla base di questo disegno, modellare una tattica conseguente, rivolta a picchiare sui punti deboli del nemico e proteggere i propri; quindi cercare alleati, dividere gli avversari, e conseguire vantaggi momentanei. Nella tattica occorre decidere se si gioca in attacco o in difesa, ma sempre tenendo presente che nessuna delle due impostazioni può essere esclusiva: né l’attacco può escludere la necessità di difendere i propri punti deboli, né la difesa può essere assoluta, senza attaccare mai i punti deboli dell’avversario. Clausewitz diceva che la parte che si chiude nel perimetro delle sue fortificazioni è destinata a perdere.

Infine, occorre avere sufficiente elasticità nella conduzione dello scontro, ma senza mai compromettere una certa linearità di comportamenti.

Veniamo al concreto caso greco.

A febbraio, Tsipras si trovava a gestire un paese non solo sull’orlo della bancarotta finanziaria, ma anche travolto da una terribile crisi economico sociale, con punte catastrofiche di disoccupazione e povertà. Per oltre dieci anni, la Grecia ha vissuto decisamente al di sopra delle sue possibilità, grazie al crescente indebitamento su cui pagava interessi molto modesti, grazie all’ingresso nell’Euro e, per fare questo, il governo ha ripetutamente truccato i bilanci. Poi, con l’arrivo della crisi, questo non è stato più possibile, è emerso un debito molto maggiore del dichiarato e gli interessi sono impazziti. Le misure di austerity imposte dalla Troika - e subite dai governi precedenti - avevano causato il crollo della esile impresa manifatturiera e di molte imprese di servizi, comprimendo il Pil, con il risultato di portare il debito dal 161 al 173% del Pil, con tassi di disoccupazione al 25%  e con tassi di povertà ai massimi storici.

Di conseguenza, Tsipras avrebbe dovuto elaborare un piano che avesse al primo posto la ripresa dell’economia reale e solo secondariamente il risanamento finanziario. Avrebbe poi dovuto presentarsi alla Ue con il suo piano ed imporre il confronto su di esso. Il primo errore di Tsipras (e di Varoufakis) è stato quello di non darsi un proprio piano ma di giocare di rimessa sulle proposte dei suoi avversari, inseguendo risultati momentanei. Molti rimproverano a Tsipras di non aver avuto un piano “B”, ma lui non aveva neppure un piano “A” .

All’interno di questo piano andavano affrontate le questioni connesse ma distinte del debito pregresso (e dell’eventuale default) e della permanenza nell’Euro. Sul primo punto, Tsiras ha mirato ad un imprecisato haircut senza prendere mai in considerazione un ripudio totale del debito. Sulla seconda, non ha mai rimesso in discussione il dogma dell’appartenenza all’Euro, quel che, ovviamente, gli precludeva anche la strada del ripudio totale, incompatibile (di fatto) con la permanenza nella moneta comune.

Il secondo tipo di errore è stato il chiudersi nel confronto in sede di Ue e Bce. In uno scontro del genere, la Grecia avrebbe dovuto allargare il campo in tre direzioni:

a. la ricerca di alleati interni alla Ue e segnatamente verso i paesi indebitati come la Grecia (Portogallo, Cipro, Italia, Spagna);

b. la ricerca di alleati fuori della Ue (Russia, Cina, Usa) giocando sulle rispettive rivalità geo politiche;

c. la ricerca di consenso nell’opinione pubblica europea, anche tedesca.

La prima cosa è stata tentata molto debolmente e tardivamente e qui ha pesato l’assenza di un piano da parte greca: se esso avesse incluso anche punti di interesse di altri paesi europei (ad esempio una revisione degli orientamenti di austerity che non fosse solo uno slogan, l’istituzione di un fondo speciale per lo sviluppo dei paesi in difficoltà, misure fiscali comuni utili a riequilibrare i differenziali fiscali fra paesi indebitati e paesi “virtuosi” che, offrendo condizioni più favorevoli, praticano una sorta di dumping fiscale ecc.)

Le seconda cosa è stata tentata non sappiamo con quanta convinzione ed offrendo cosa, di fatto non si è mai parlato di rimettere in discussione l’appartenenza della Grecia alla Nato, punto sensibile per americani e russi. Né sappiamo cosa abbia offerto Tsipras a russi e cinesi: il passaggio dei gasdotti? I porti? O che altro? In ogni caso, pare che non abbia avuto particolare successo in questa direzione.

La terza cosa non è stata tentata affatto: non è stata neppure tentata una riunione dei partiti anti austerity del Mediterraneo (Podemos, M5s, partiti comunisti dell’area ecc.)  e, soprattutto, non è stata tentata alcuna “offensiva di immagine”, Nell’opinione pubblica europea è prevalsa una generica simpatia per la Grecia, ma più in funzione antitedesca che altro e senza che, in fondo, si cancellasse l’idea che i Greci, in realtà, vogliono vivere di assistenza da parte degli altri europei. L’assenza di un piano di sviluppo ha confermato questa idea.

Sarebbe stata necessaria, inoltre, una “svolta di immagine” con gesti clamorosi: ad esempio, Tsipras avrebbe potuto presentare la sua Grecia come qualcosa che rompeva con il passato. Ad esempio, spedire di corsa sotto processo i governanti precedenti, da Karamanlis a Papandreu ecc., per la falsificazione dei bilanci statali (che, sino a prova contraria, è un reato anche grave), denunciando pubblicamente il danno fatto sia alla Grecia che all’Unione europea; questo avrebbe costituito uno shock abbastanza forte e, per quanto i paesi europei, tedeschi in testa, fossero consapevoli di quelle falsificazioni, non avrebbero potuto dirlo, né avrebbero potuto prendere le difese degli accusati essendo, almeno formalmente, le parti lese di quei falsi.

Una mossa di questo tipo avrebbe non solo avuto un certo impatto sull’opinione pubblica europea, importante per correggere l’immagine della Grecia, ma anche introdurre nel negoziato elementi più favorevoli ad Atene e, cosa non meno rilevante, indebolire l’opposizione “europeista” interna al paese.

Altra serie di errori di Tsipras: sulla valutazione dei rapporti di forze. Da un lato Tsipras non ha tenuto conto la possibile mossa di bloccare i prestiti interbancari, che ha messo a secco le banche greche, bloccando la liquidità: era una mossa abbastanza scontata, perché è evidente che questo sarebbe stato il modo di fiaccare la resistenza della società civile greca, non averla prevista è imperdonabile. Dall’altro Tsipras non ha valutato i punti deboli degli avversari: l’alto costo di un default greco con uscita della Grecia dall’Euro e, in particolare per la Germania, la situazione molto critica delle sue banche. A chi gli prospettava i guai di Atene in caso di ritorno alla dracma (in particolare la rapida svalutazione della moneta), i negoziatori greci avrebbero dovuto replicare con l’elenco degli effetti della Grexit sull’Euro e i paesi dell’eurozona. In primo luogo l’effetto diretto (abbastanza contenuto) di un default che “brucia” oltre 300 miliardi, ma, soprattutto la fine del dogma dell’irreversibilità dell’Euro e il rimbalzo della speculazione sui paesi deboli, una volta aperta la porta sulla possibile uscita di altri dalla moneta unica. E qui emerge un’altra inadeguatezza “tecnica” di Atene: non aver utilizzato modelli di simulazione che avrebbero potuto offrire stime credibili sugli effetti della Grexit tanto sulla Grecia quanto sull’Eurozona. Sicuramente Bce e tedeschi avevano fatto le loro simulazioni che tenevano ben coperte, era interesse dei greci scoprire il gioco e presentarne di proprie. Se anche i greci si fossero dotati di questi strumenti, il negoziato sarebbe stato più equilibrato e le sparate terroristiche dei tedeschi avrebbero avuto effetti molto più ridotti.

Quanto alle banche tedesche, non è un mistero che da almeno 4 anni navigano in brutte acque. Assumere le iniziative necessarie nelle sedi dovuto, avrebbe contribuito a “sfondare” il muro dell’opinione pubblica tedesca intaccandone la sicurezza e questo avrebbe creato non pochi problemi a Schauble. Sarebbe bastato anche solo accennarvi per mettere gli avversari sulla difensiva, magari per poco. E questo è stato l’errore di chiudersi del tutto in difesa.

Ci sono stati poi errori madornali nella conduzione della trattativa: in primo luogo trascinandola in lungo per 5 mesi, in una situazione in cui il tempo giocava contro e non a favore di Atene, che nel frattempo spendeva le sue ultime risorse per pagare le rate di interessi in arrivo. In secondo luogo Tsipras e Varoufakis hanno dato la sensazione di un continuo zig zag senza saper bene dove andare, facendo concessioni a tratti. Essere flessibili è necessario, ma questo non significa muoversi a casaccio. Fare concessioni  a sprazzi non ha suggerito una immagine di ragionevolezza dei negoziatori di Atene, ma una di inaffidabilità ed imprevedibilità. Sbagliata nell’esecuzione anche la mossa del referendum, deciso all’improvviso e vissuto dagli altri come una rottura delle trattative.

Atene avrebbe dovuto presentarsi con un suo piano organico, offrire subito quello che poteva offrire (e non a singhiozzo), chiedere immediatamente il taglio del debito ed in una misura precisa, prospettare le richieste di aiuti per la ripresa dell’economia reale, annunciare sin dall’inizio che l’accordo finale sarebbe stato sottoposto a referendum e prospettare chiaramente la possibile uscita dall’Euro con le conseguenze per sé e per gli altri. E, intorno a questo, sviluppare un’offensiva alla ricerca di sostenitori sia fra gli stati che nell’opinione pubblica europea. Realisticamente, la Grecia avrebbe dovuto chiedere un’uscita concordata e controllata dalla moneta unica, ma questo era proprio il punto di debolezza della posizione greca: non prendere in considerazione l’uscita dalla moneta unica  neppure in via negoziale e concordata. Restare nell’Euro non poteva avere altra conclusione, anche se l’accordo finale è stato il peggiore possibile anche perché l’inutile negoziato (che molti di sinistra hanno scambiato per una fiera lezione di lotta: niente di più sbagliato) aveva fatto irrigidire gli interlocutori, dando spazio agli oltranzisti. Ma se, poi, non fosse davvero esistito alcun margine vero di trattativa e l’esito della capitolazione fosse stato inevitabile, vuol dire che è stato fatto male il calcolo iniziale e che, invece, occorreva cercare subito di concludere l’accordo, anche al ribasso, ma che, comunque sarebbe costato meno di questo esito così crudo. In ogni caso Tsipras si è mostrato un pessimo negoziatore ed un peggiore stratega.

Più avanti torneremo sul problema dell’appartenenza della Grecia all’Euro e sulla praticabilità di una sua uscita.

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