di Michele Paris
La strategia statunitense in Siria sta a poco a poco mostrando il
vero obiettivo della campagna militare scatenata ormai quasi un anno fa.
Dietro la facciata della guerra contro lo Stato Islamico (ISIS),
Washington e i suoi alleati in Medio Oriente stanno infatti preparando
un’intensificazione dell’offensiva in questo paese, diretta a rovesciare
il regime di Bashar al-Assad.
In questo senso va intesa la
recente autorizzazione fornita dall’amministrazione Obama alle forze
aeree americane, le quali potranno ora entrare in azione per difendere
la manciata di “ribelli” siriani addestrati dal Pentagono e dalla CIA,
non solo se attaccati dall’ISIS o da altri gruppi estremisti, ma anche
dalle forze di Damasco.
L’ordine della Casa Bianca è stato
accompagnato dalle inutili rassicurazioni circa la natura essenzialmente
“difensiva” della misura appena adottata e dalla conferma che gli Stati
Uniti “non sono in guerra con il regime di Assad”. In realtà,
l’autorizzazione a bombardare obiettivi legati al governo siriano, sia
pure a scopi teoricamente difensivi, comporta una pericolosa escalation
del conflitto, rendendo solo una questione di tempo lo scontro diretto
tra Damasco e gli USA. Tanto più che le forze governative sono attive
nella provincia settentrionale di Aleppo, dove operano i mercenari
addestrati da Washington.
La decisione resa nota a inizio
settimana giunge pochi giorni dopo l’umiliazione patita dagli stessi
“ribelli” appoggiati dagli USA in seguito a un attacco del Fronte
al-Nusra, ovvero l’organizzazione fondamentalista che rappresenta
ufficialmente al-Qaeda in Siria. Il Fronte aveva rapito il comandante
del gruppo di uomini inviati nel paese dopo essere stati addestrati
dagli americani, assieme ad altri sei membri di questo modestissimo
manipolo di combattenti.
Per
stessa ammissione del Pentagono, i 500 milioni di dollari stanziati dal
governo di Washington per addestrare migliaia o decine di migliaia di
uomini per combattere l’ISIS hanno dato finora un risultato irrisorio,
con appena una sessantina di uomini rispediti in Siria, inevitabilmente
impreparati ed esposti agli assalti dei ben più potenti gruppi
jihadisti.
L’effetto di questo episodio è stato devastante per il
governo e i vertici militari americani, i quali - come i loro stessi
uomini in Siria - ritenevano probabilmente che il Fronte al-Nusra e le
formazioni ad esso legate potessero agire da alleati di fatto dei
guerriglieri sotto la loro protezione.
Questa ipotesi di alleanza
o collaborazione resta comunque reale, vista l’inconsistenza dei
mercenari di Washington. In tal caso, se anche il regime di Damasco
dovesse decidere di non colpire direttamente questi ultimi, un’offensiva
contro le forze jihadiste armate potrebbe fornire la giustificazione di
una risposta da parte americana, essendo i loro uomini integrati con
queste ultime.
Organizzazioni come il Fronte al-Nusra e altre di
ispirazione fondamentalista continuano d’altra parte a ricevere
assistenza più o meno clandestina da parte degli alleati di Washington,
come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
In ogni
caso, il gruppo di combattenti addestrati dagli USA appare talmente
inefficace da rendere virtualmente indistinguibile la natura offensiva o
difensiva di un eventuale operazione in cui esso potrebbe trovarsi
coinvolto. Il ruolo delle poche decine di uomini spediti in Siria,
perciò, sembra essere precisamente quello di provocare un attacco delle
forze del regime per stabilire una sorta di casus belli che giustifichi
l’offensiva americana diretta contro Assad.
Tutti i segnali delle
ultime settimane indicano d’altra parte un’evoluzione del conflitto in
Siria verso una nuova guerra aperta per il cambio di regime. In
particolare, l’ennesima svolta strategica americana in Medio Oriente ha
accelerato i preparativi in questo senso. L’amministrazione Obama ha
cioè scaricato i guerriglieri curdi, che fino ad ora avevano
rappresentato il partner principale nella lotta all’ISIS, per ottenere
l’ingresso nelle ostilità della Turchia.
Ankara, com’è noto da
tempo, vede con maggiore preoccupazione la formazione di un’entità
autonoma curda nel nord della Siria e la permanenza al potere di Assad
che non l’espansione dell’ISIS. A questo scopo, il governo del
presidente Erdogan e del premier Davutoglu spinge per la creazione di
una no-fly zone oltre il proprio confine meridionale, sia per
scongiurare il consolidamento di uno stato curdo di fatto indipendente
sia per organizzare al meglio un’offensiva contro le forze di Damasco.
Tramite
il recente accordo con la Turchia, gli Stati Uniti hanno da parte loro
avallato questo progetto illegale, il quale, assieme alla decisione di
questa settimana di rispondere agli attacchi del regime siriano, segna
una tappa fondamentale nella guerra contro Assad, scatenata ormai più di
quattro anni fa.
Sul
nuovo impulso alla guerra in Siria deciso dalla Casa Bianca hanno
influito ragioni sia di politica interna sia gli eventi che hanno
segnato recentemente la scena mediorientale. Sul fronte interno, Obama
continua a essere esposto alle pressioni dei “falchi” che chiedono da
anni un impegno diretto dei militari USA per chiudere definitivamente
con Assad, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.
Nel
secondo caso, invece, non è solo l’insistenza a farla finita con Assad
da parte della Turchia e delle monarchie assolute del Golfo a costituire
un fattore decisivo sulle sconsiderate scelte di politica estera del
governo USA, ma anche probabilmente i nuovi scenari aperti dall’accordo
sul nucleare iraniano.
L’intesa siglata il mese scorso a Vienna,
almeno nei calcoli di Washington, dovrebbe rendere cioè improbabile una
reazione di Teheran a un’offensiva diretta contro l’alleato Assad,
poiché trascinerebbe la Repubblica Islamica in un conflitto di vaste
proporzioni in Medio Oriente, spegnendo sul nascere le ambizioni della
propria classe dirigente a rientrare a pieno titolo nei circuiti del
capitalismo internazionale.
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