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05/08/2015

I "danni collaterali" della guerra occidentale al terrore

di Chiara Cruciati

Li chiamano danni collaterali. In un anno in Iraq sono stati 459. Almeno 459 civili sono stati uccisi tra Iraq e Siria dal fuoco statunitense, dai raid della coalizione anti-Isis. I morti tra gli islamisti dell’Isis – secondo Airwars, progetto che monitora i raid internazionali contro gli estremisti – sarebbero invece 15mila. Insomma, quasi una precisione chirurgica verrebbe da dire a guardare dati tanto sproporzionati.

Ovviamente l’approssimativa analisi non va a sbirciare dietro le quinte della guerra globale allo Stato Islamico: Airwars ci tiene a precisare di aver indagato la morte di oltre mille civili, ma di aver incontrato chiare difficoltà a causa del controllo che in molte aree di Siria e Iraq è esercitato dallo Stato Islamico.

Ma soprattutto un simile rapporto non può tenere conto delle vittime indirette dell’intervento occidentale in Medio Oriente. Non tiene conto delle vittime civili provocate dagli alleati della Nato e degli Stati uniti – Turchia in testa, che quando non faceva ancora parte della coalizione ha provocato direttamente e indirettamente la morte di kurdi e turchi al confine con la Siria. Non tiene conto dei civili uccisi in questi anni di guerra civile siriana e irachena dall’interferenza pesante degli alleati del Golfo che hanno foraggiato l’Isis e gli altri gruppi di ribelli islamisti in chiave anti-sciita.

Non tiene conto della violazione dei diritti basilari di un popolo, il diritto alla vita, ma anche quello alla salute e all’educazione: sono oltre 1.500 le scuole distrutte o danneggiate nella provincia sunnita irachena di Anbar dalla guerra in corso tra governo e islamisti. Ad Anbar combattono tutti: l’Isis, le milizie sciite guidate dall’Iran, le truppe governative irachene e gli aerei da guerra della coalizione. “Molte di queste scuole sono state target diretto dell’Isis – spiega Eid Ammash, portavoce del consiglio provinciale – Le altre sono luoghi usati dall’Isis come base e sono quindi state colpite dalle forze governative e dalla coalizione. Altre semplicemente si trovano sulla linea del fronte”.

Non tiene conto dei civili massacrati in nome della guerra al terrore. Come le vittime kurdo-irachene del villaggio di Zarkel nel nord dell’Iraq, uccise sabato scorso dai jet turchi che colpiscono il Pkk fingendo di colpire l’Isis. Un’operazione, quella turca, contro il movimento kurdo che ha effetti anche all’interno dell’Iraq, sui già difficili rapporti tra il governo regionale del Kurdistan iracheno e il governo centrale di Baghdad.

La questione centrale non è il Pkk, ma il contenzioso in corso da anni tra Erbil e Baghdad: il greggio, la rete di alleanze regionali e le spinte indipendentiste kurde. La rottura è apparsa chiara la settimana scorsa: prima il premier iracheno al-Abadi ha definito l’aggressione turca “una violazione della sovranità del paese” (accusa che la comunità internazionale non ha neppure commentato) e solo due giorni dopo il presidente kurdo Barzani ha chiesto al Partito Kurdo dei Lavoratori di lasciare il nord dell’Iraq così da evitare vittime civili nei raid turchi.

Posizioni distanti che hanno alla base la diversa strategia politica dei due attori: Erbil non intende mettere in pericolo i rapporti strettissimi con Ankara. La Turchia, dal 2008 in poi, ha stretto relazioni economiche solidissime con il Kurdistan iracheno, che hanno raggiunto l’apice nell’anno appena trascorso: approfittando della crisi di Baghdad, Erbil ha cominciato a vendere il greggio locale senza passare per il governo centrale.

Con il sostegno indispensabile della Turchia, che ha messo a disposizione un oleodotto con un potenziale di 2 milioni di barili al giorno per consegnare all’Europa il petrolio del nord Iraq. In pochi anni la Turchia è diventato il primo investitore nel Kurdistan iracheno e uno dei primi partner commerciali, con la costruzione e il finanziamento di aeroporti, gasdotti, giacimenti petroliferi, infrastrutture, ma anche attraverso il business di 1500 compagnie private turche con sede a Erbil.

Ankara rappresenta oggi per il Kurdistan iracheno un’ala confortevole sotto la quale immaginare un futuro di indipendenza. E sotto la quale proteggersi dal nemico comune Iran, sempre più vicino a Baghdad ma non alla visione politica di Barzani.

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