di Chiara Cruciati
Li chiamano danni
collaterali. In un anno in Iraq sono stati 459. Almeno 459 civili sono
stati uccisi tra Iraq e Siria dal fuoco statunitense, dai raid della
coalizione anti-Isis. I morti tra gli islamisti dell’Isis – secondo Airwars, progetto che monitora i raid internazionali contro gli estremisti – sarebbero invece 15mila. Insomma, quasi una precisione chirurgica verrebbe da dire a guardare dati tanto sproporzionati.
Ovviamente l’approssimativa analisi non va a sbirciare dietro le quinte
della guerra globale allo Stato Islamico: Airwars ci tiene a precisare
di aver indagato la morte di oltre mille civili, ma di aver incontrato
chiare difficoltà a causa del controllo che in molte aree di Siria e
Iraq è esercitato dallo Stato Islamico.
Ma soprattutto un simile rapporto non può tenere conto delle vittime indirette dell’intervento occidentale in Medio Oriente.
Non tiene conto delle vittime civili provocate dagli alleati della Nato
e degli Stati uniti – Turchia in testa, che quando non faceva ancora
parte della coalizione ha provocato direttamente e indirettamente la
morte di kurdi e turchi al confine con la Siria. Non tiene conto dei
civili uccisi in questi anni di guerra civile siriana e irachena
dall’interferenza pesante degli alleati del Golfo che hanno foraggiato
l’Isis e gli altri gruppi di ribelli islamisti in chiave anti-sciita.
Non tiene conto della violazione dei diritti basilari di un
popolo, il diritto alla vita, ma anche quello alla salute e
all’educazione: sono oltre 1.500 le scuole distrutte o
danneggiate nella provincia sunnita irachena di Anbar dalla guerra in
corso tra governo e islamisti. Ad Anbar combattono tutti: l’Isis, le
milizie sciite guidate dall’Iran, le truppe governative irachene e gli
aerei da guerra della coalizione. “Molte di queste scuole sono state
target diretto dell’Isis – spiega Eid Ammash, portavoce del consiglio
provinciale – Le altre sono luoghi usati dall’Isis come base e sono
quindi state colpite dalle forze governative e dalla coalizione. Altre
semplicemente si trovano sulla linea del fronte”.
Non tiene conto dei civili massacrati in nome della guerra al
terrore. Come le vittime kurdo-irachene del villaggio di Zarkel nel nord
dell’Iraq, uccise sabato scorso dai jet turchi che colpiscono il Pkk
fingendo di colpire l’Isis. Un’operazione, quella turca, contro il
movimento kurdo che ha effetti anche all’interno dell’Iraq, sui già
difficili rapporti tra il governo regionale del Kurdistan iracheno e il
governo centrale di Baghdad.
La questione centrale non è il Pkk, ma il contenzioso in
corso da anni tra Erbil e Baghdad: il greggio, la rete di alleanze
regionali e le spinte indipendentiste kurde. La rottura è
apparsa chiara la settimana scorsa: prima il premier iracheno al-Abadi
ha definito l’aggressione turca “una violazione della sovranità del
paese” (accusa che la comunità internazionale non ha neppure commentato)
e solo due giorni dopo il presidente kurdo Barzani ha chiesto al
Partito Kurdo dei Lavoratori di lasciare il nord dell’Iraq così da
evitare vittime civili nei raid turchi.
Posizioni distanti che hanno alla base la diversa strategia politica
dei due attori: Erbil non intende mettere in pericolo i rapporti
strettissimi con Ankara. La Turchia, dal 2008 in poi, ha stretto relazioni economiche solidissime con il Kurdistan iracheno,
che hanno raggiunto l’apice nell’anno appena trascorso: approfittando
della crisi di Baghdad, Erbil ha cominciato a vendere il greggio locale
senza passare per il governo centrale.
Con il sostegno indispensabile della Turchia, che ha messo a
disposizione un oleodotto con un potenziale di 2 milioni di barili al
giorno per consegnare all’Europa il petrolio del nord Iraq. In pochi
anni la Turchia è diventato il primo investitore nel Kurdistan iracheno e
uno dei primi partner commerciali, con la costruzione e il
finanziamento di aeroporti, gasdotti, giacimenti petroliferi,
infrastrutture, ma anche attraverso il business di 1500 compagnie
private turche con sede a Erbil.
Ankara rappresenta oggi per il Kurdistan iracheno un’ala confortevole sotto la quale immaginare un futuro di indipendenza. E sotto la quale proteggersi dal nemico comune Iran, sempre più vicino a Baghdad ma non alla visione politica di Barzani.
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