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06/08/2015

Obama: via libera alla guerra contro Assad

di Michele Paris

La strategia statunitense in Siria sta a poco a poco mostrando il vero obiettivo della campagna militare scatenata ormai quasi un anno fa. Dietro la facciata della guerra contro lo Stato Islamico (ISIS), Washington e i suoi alleati in Medio Oriente stanno infatti preparando un’intensificazione dell’offensiva in questo paese, diretta a rovesciare il regime di Bashar al-Assad.

In questo senso va intesa la recente autorizzazione fornita dall’amministrazione Obama alle forze aeree americane, le quali potranno ora entrare in azione per difendere la manciata di “ribelli” siriani addestrati dal Pentagono e dalla CIA, non solo se attaccati dall’ISIS o da altri gruppi estremisti, ma anche dalle forze di Damasco.

L’ordine della Casa Bianca è stato accompagnato dalle inutili rassicurazioni circa la natura essenzialmente “difensiva” della misura appena adottata e dalla conferma che gli Stati Uniti “non sono in guerra con il regime di Assad”. In realtà, l’autorizzazione a bombardare obiettivi legati al governo siriano, sia pure a scopi teoricamente difensivi, comporta una pericolosa escalation del conflitto, rendendo solo una questione di tempo lo scontro diretto tra Damasco e gli USA. Tanto più che le forze governative sono attive nella provincia settentrionale di Aleppo, dove operano i mercenari addestrati da Washington.

La decisione resa nota a inizio settimana giunge pochi giorni dopo l’umiliazione patita dagli stessi “ribelli” appoggiati dagli USA in seguito a un attacco del Fronte al-Nusra, ovvero l’organizzazione fondamentalista che rappresenta ufficialmente al-Qaeda in Siria. Il Fronte aveva rapito il comandante del gruppo di uomini inviati nel paese dopo essere stati addestrati dagli americani, assieme ad altri sei membri di questo modestissimo manipolo di combattenti.

Per stessa ammissione del Pentagono, i 500 milioni di dollari stanziati dal governo di Washington per addestrare migliaia o decine di migliaia di uomini per combattere l’ISIS hanno dato finora un risultato irrisorio, con appena una sessantina di uomini rispediti in Siria, inevitabilmente impreparati ed esposti agli assalti dei ben più potenti gruppi jihadisti.

L’effetto di questo episodio è stato devastante per il governo e i vertici militari americani, i quali - come i loro stessi uomini in Siria - ritenevano probabilmente che il Fronte al-Nusra e le formazioni ad esso legate potessero agire da alleati di fatto dei guerriglieri sotto la loro protezione.

Questa ipotesi di alleanza o collaborazione resta comunque reale, vista l’inconsistenza dei mercenari di Washington. In tal caso, se anche il regime di Damasco dovesse decidere di non colpire direttamente questi ultimi, un’offensiva contro le forze jihadiste armate potrebbe fornire la giustificazione di una risposta da parte americana, essendo i loro uomini integrati con queste ultime.

Organizzazioni come il Fronte al-Nusra e altre di ispirazione fondamentalista continuano d’altra parte a ricevere assistenza più o meno clandestina da parte degli alleati di Washington, come Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

In ogni caso, il gruppo di combattenti addestrati dagli USA appare talmente inefficace da rendere virtualmente indistinguibile la natura offensiva o difensiva di un eventuale operazione in cui esso potrebbe trovarsi coinvolto. Il ruolo delle poche decine di uomini spediti in Siria, perciò, sembra essere precisamente quello di provocare un attacco delle forze del regime per stabilire una sorta di casus belli che giustifichi l’offensiva americana diretta contro Assad.

Tutti i segnali delle ultime settimane indicano d’altra parte un’evoluzione del conflitto in Siria verso una nuova guerra aperta per il cambio di regime. In particolare, l’ennesima svolta strategica americana in Medio Oriente ha accelerato i preparativi in questo senso. L’amministrazione Obama ha cioè scaricato i guerriglieri curdi, che fino ad ora avevano rappresentato il partner principale nella lotta all’ISIS, per ottenere l’ingresso nelle ostilità della Turchia.

Ankara, com’è noto da tempo, vede con maggiore preoccupazione la formazione di un’entità autonoma curda nel nord della Siria e la permanenza al potere di Assad che non l’espansione dell’ISIS. A questo scopo, il governo del presidente Erdogan e del premier Davutoglu spinge per la creazione di una no-fly zone oltre il proprio confine meridionale, sia per scongiurare il consolidamento di uno stato curdo di fatto indipendente sia per organizzare al meglio un’offensiva contro le forze di Damasco.

Tramite il recente accordo con la Turchia, gli Stati Uniti hanno da parte loro avallato questo progetto illegale, il quale, assieme alla decisione di questa settimana di rispondere agli attacchi del regime siriano, segna una tappa fondamentale nella guerra contro Assad, scatenata ormai più di quattro anni fa.

Sul nuovo impulso alla guerra in Siria deciso dalla Casa Bianca hanno influito ragioni sia di politica interna sia gli eventi che hanno segnato recentemente la scena mediorientale. Sul fronte interno, Obama continua a essere esposto alle pressioni dei “falchi” che chiedono da anni un impegno diretto dei militari USA per chiudere definitivamente con Assad, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.

Nel secondo caso, invece, non è solo l’insistenza a farla finita con Assad da parte della Turchia e delle monarchie assolute del Golfo a costituire un fattore decisivo sulle sconsiderate scelte di politica estera del governo USA, ma anche probabilmente i nuovi scenari aperti dall’accordo sul nucleare iraniano.

L’intesa siglata il mese scorso a Vienna, almeno nei calcoli di Washington, dovrebbe rendere cioè improbabile una reazione di Teheran a un’offensiva diretta contro l’alleato Assad, poiché trascinerebbe la Repubblica Islamica in un conflitto di vaste proporzioni in Medio Oriente, spegnendo sul nascere le ambizioni della propria classe dirigente a rientrare a pieno titolo nei circuiti del capitalismo internazionale.

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