Se ne va l’autore che della commedia all'italiana di Monicelli, Comencini, Risi e Germi aveva forgiato una versione più raffinata e potente, coraggiosa e militante, dal grande respiro storico. La sua cinematografia tocca l’apice di successo e di pubblico con C’eravamo tanto amati (1974) e Una giornata particolare (1977), ma La più bella serata della mia vita (1972) e Brutti, sporchi e cattivi scolpiscono nell'immaginario collettivo il ritratto impietoso e sublime di un Paese perennemente uguale a se stesso
Ora il capitolo è chiuso. La lunga vita della commedia all’italiana è definitivamente finita la scorsa notte, quando anche Ettore Scola, 84 anni, ci ha lasciati. Il cuore ‘stanco’ di uno dei registi che con Mario Monicelli, Dino Risi, Nanni Loy, Luigi Comencini, Pietro Germi, Luigi Zampa, ha scolpito su pellicola il linguaggio della risata più amara e più bella, più popolare e più coscienziosa, ha cessato di battere. Se ne va l’autore che di quella commedia ne aveva come forgiata una sua versione più raffinata e potente, coraggiosa e militante, dal respiro storico e autoironico. Signorile e mai sopra le righe Scola lo è stato sempre.
Uomo d’altri tempi, elegante nei modi, affabile in ogni tipo di conversazione. Cittadino dalla coscienza politica
forte, tanto che definirlo un grande intellettuale dell’ultimo secolo
non è né un’offesa, né un’esagerazione. All’epoca la creazione di una
risata non era semplice borbottio della pancia o simpatia da bar, ma
tentativo apparentemente ‘leggero’ di riflessione sul passato, occhiata
spietata sul presente, anelito spesso malinconico verso il futuro,
sicuramente messaggio universale per una società italiana che sembrava
unita sotto la bandiera di un cinema progressista e nuovo. Vanto o
costrizione culturale dipende dalla parte da cui lo si guarda; ma
certamente un dato di fatto che ha consentito ad un’arte di farsi industria e affermarsi nel mondo.
Scola è uno di quei registi che rispetto al timing storico della
commedia all’italiana inizia relativamente tardi ad affermarsi a livello
mondiale. La sua cinematografia tocca l’apice di successo e di pubblico
tra la metà e la fine degli anni settanta con C’eravamo tanto amati (1974) e Una giornata particolare (1977). Non ha mai avuto fretta il ragazzotto irpino che aveva iniziato a collaborare al Marc’Aurelio fiancheggiando Fellini e Steno, incontrando Age & Scarpelli, che saranno suoi inseparabili amici e sceneggiatori, come pure quel Ruggero Maccari,
anche lui al lavoro nel cinema di Scola a far pendere la bilancia verso
quel pubblico medio, mescolando “fantasia, ironia, osservazione di
costume e calibratura degli effetti comici”.
Un ‘team’ si direbbe oggi con al centro sempre l’intuizione generale e
la supervisione progettuale di Scola. Film che correvano naturalmente a
confrontarsi con l’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale
per mostrarne strascichi insanabili e ideali intonsi nonostante la quotidianità corrotta dei decenni a venire. Basta guardare la parabola dei tre partigiani (Gassman, Manfredi e Stefano Satta Flores) in C’eravamo tanto amati:
quel dimenarsi etico tra idealità e immoralità trent’anni dopo il ’45,
che oltretutto sbancò il box office italiano con quasi 4 miliardi
dell’epoca. Dedicato a Vittorio De Sica e al neorealismo che con la sua “scuola” innervò scrittura e regia della commedia popolare dei Sordi, Gassman, Manfredi, Sandrelli, Vitti e Cardinale, C’eravamo tanto amati fa il paio con Una giornata particolare.
Forse molti lettori hanno imparato a piegare le lenzuola insieme al
partner dopo aver visto la sequenza del terrazzo. Altri quella sequenza
con Mastroianni e la Loren non l’hanno
più dimenticata. Infatti lassù tra le lenzuola stese, con l’eco dei
canti nazifascisti a invadere subdolamente l’udito di attori e
spettatori si consuma il fugace avvicinamento e rapido addio di due
anime inquete, emarginate e candide, impossibilitate a vivere l’affetto
naturale e inqualificabile l’uno per l’altro (lui è gay, lei donna
rigidissima sposata a un funzionario fascista).
Di Scola però vanno ricordati tanti altri film, nel tempo osannati
molto meno dei suoi capolavori. Intanto il vero successo primigenio
della sua carriera: Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?
(1968), una commedia bizzarra, ca va sans dire ‘d’evasione’, che fa
respirare attori, macchina da presa e racconto all’interno del contesto
africano dell’Angola. Il protagonista – Sordi – è un editore che stanco
della vita di Roma va alla ricerca del cognato – Manfredi – che si è
costruito una tribù e di questa è diventato stregone. Onore al merito
nell’aver instillato il dubbio esistenziale al giovane rampante romano che alla fine (“Ho le idee poco chiare”) fatica a tornare a casa.
Sordi è utilizzato nuovamente nel film successivo da Scola: La più bella serata della mia vita
(1972) tratto dal romanzo di Durenmatt – La Panne – e con protagonista
un uomo d’affari disonesto e farabutto che scampa al giudizio di quattro
magistrati/giudici in pensione con una risata liberatoria in primo
piano, diversamente dal suicidio previsto del romanzo dell’autore
svizzero. “Certe mentalità rappresentate nell’opera non sono invecchiate. Il mio è sempre stato un cinema satirico che si riferiva all’attualità in cui veniva fatto, ma ci si accorge sempre più che questa attualità è abbastanza eterna”, spiegò nel 2012 a IlFattoQuotidiano.it. “Voglio dire, i difetti continuano a ripetersi, il mio è un personaggio del ’72 a cui sembrano ispirarsi personaggi di trent’anni anni dopo: un industriale sicuro di sé, volgare, donnaiolo, senza scrupoli, soddisfatto di sé della sua simpatia e della sua disinvoltura morale. Ci sembrava originale all’epoca, ma ce lo siamo ritrovati non solo al cinema, ma nei più alti luoghi della vita pubblica e politica italiana”.
Nel ’76 tra i due grandi successi di pubblico e critica, Scola osa
perfino un film che nemmeno i più disinvolti e sensazionalisti
neorealisti del 2016 avrebbero il coraggio di fare. Brutti, sporchi e cattivi vince la palma d’oro a Cannes per la miglior regia, ma spaventa gli spettatori per un ritratto feroce, crudele e insozzato di fango, fogne e violenza di una famiglia di trenta persone che abita in una baraccopoli. Giacinto
è il patriarca sguercio (un Manfredi pazzesco) che custodisce
maniacalmente un milione di lire dal possibile furto del parentado. Il
tentativo di ucciderlo con il veleno nella pastasciutta sul finale con
tanto di Manfredi che con una pompa della bicicletta infilata in gola
prova a vomitare il ddt è qualcosa che rimane concettualmente nella
memoria, pasolinianamente oltre la brutalità dell’immagine in sé.
Con gli anni ottanta Scola continua con una fase più meditata e in qualche modo sofisticata. Ci sono La terrazza (1980) che fa borghesemente il paio con La Famiglia (1987); come il trittico Maccheroni (1985), Splendor e Che ora è? (entrambi 1989) dove si incrociano Jack Lemmon con Mastroianni, poi nel secondo e terzo titolo Massimo Troisi
sempre con Mastroianni. Sono tre commedia amare, disincantante,
intimiste, chiuse su se stesse e sulla linearità del racconto, più che
sull’esplorazione sociale e popolare a cui eravamo abituati. Anche se la
vera esplosione centrifuga è con un film bistrattato, assolutamente da
recuperare, per chi scrive la prima visione di Scola: Il Mondo Nuovo (1982). Il produttore è Renzo Rossellini
per la Gaumont (Scola ha sempre avuto un ottimo rapporto con la Francia
tanto da ricevere parecchi premi Cesar) per un film in cui si
ricostruisce, tra verità storica e finzione narrativa, la fuga a
Varennes di Luigi XVI. Con loro in carrozza ci sono Giacomo Casanova (un
Mastroianni incipriato davvero indimenticabile) e pure Thomas Paine
interpretato da Harvey Keitel. Inutile dire che
metaforicamente il tempo della rivoluzione travolse pure lo stesso Scola
che, nonostante il coraggioso tentativo di Romanzo di un giovane povero (1995) non riuscirà più a ripetere i fasti del quindicennio 1966-1982.
Nel 2011 il ritiro definitivo dal mondo del cinema, anche se amava
raccontare delle sue sortite improvvise in diverse occasioni, come
riportato dall’Ansa: “Ogni paesino ha un cinema che rischia la chiusura,
un festivalino che cerca di crescere, un circolo
culturale. E io tutto sommato mi commuovo a sentire tanta passione, mi
sembra tempo ben speso quello a fianco di giovani che credono ancora in
valori e idee. Ma detesto le celebrazioni e l’enfasi, non è ancora tempo
di mummificarmi”.
Troppe e fuori tempo massimo le iniziative in cui Scola è stato
coinvolto negli ultimi vent’anni, probabilmente per la sua generosità e
lo storico impegno politico, a supporto di un cinema italiano agonizzante. Scola fu per lungo periodo militante del Partito Comunista Italiano.
E per capire cosa volesse dire girare commedia popolari e
contemporaneamente documentari per il Pci l’ha raccontato lui stesso
parlando dell’amico Nanni Loy: “Lavoravamo tutti e due per l’Unitelefilm
che era una piccola casa di produzione del Partito Comunista, per il
quale ho fatto anche dei film come “Treviso-Torino“, “Viaggio nel Fiat-nam” poi sulla morte di Pinelli, l’omicidio Calabresi,
con Petri, che era un altro dei registi della nostra generazione con
cui ci trovavamo a dividere il tempo tra la nostra professione e la
militanza. Noi tre, assieme ad Ugo Pirro abbiamo fatto un cinema di controinformazione, sia pure di diffusione limitata perché andava nelle università, nelle fabbriche, nelle feste dell’Unità”.
Ci mancherà Scola, per quell’innato piacere di farci rispecchiare
nella miseria umana e nella sua sincera idealità. Basti pensare a quel
film che doveva girare su idea di Gian Maria Volonté
con Massimo Troisi: due anarchici, uno napoletano e l’altro torinese,
devono preparare un attentato contro un principe ma non riuscendo a
comunicare, se non in dialetti diversi, non si capiscono e l’attentato
va a rotoli.
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