di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Qualcuno si è finalmente
accorto del massacro di civili kurdi in corso nel sud est della Turchia:
nel silenzio di Stati Uniti e Unione Europea, ad accusare Ankara è Amnesty International che
in un rapporto pubblicato ieri analizza l’attuale campagna militare.
«Una punizione collettiva» contro 200mila persone soffocate da
coprifuoco, operazioni militari e assenza di servizi base, dall’acqua
alla sanità.
«Tra le vittime ci sono bambini, donne, anziani che non sono
coinvolti negli scontri con le forze di sicurezza – si legge nel
rapporto – Le operazioni di polizia sono caratterizzate dall’abuso di
forza, incluse armi pesanti in quartieri residenziali. Le autorità
turche mettono a rischio vite umane usando forza eccessiva in modo
sprezzante». I casi si moltiplicano, i numeri parlano da soli:
oltre 160 civili uccisi dalla fine di luglio. E chi è ancora vivo è
costretto ad una vita sotto assedio, chiuso in casa e nei propri
quartieri, a volte accanto ai cadaveri dei propri cari, impossibili da
seppellire a causa del fuoco ininterrotto da parte turca. Succede
ovunque, a Cizre, Silopi, Diyarbakir, città in stallo dove ogni servizio si è fermato e iniziano a scarseggiare i mezzi per sopravvivere, acqua potabile e cibo.
Il presidente turco Erdogan fa orecchie da mercante e, forte
dell’impunità dell’Occidente, si fa scudo con la lotta al Pkk. Mercoledì
ha tuonato di nuovo e promesso un pugno di ferro ancora più brutale
contro il popolo kurdo: il negoziato non sarà riaperto, il governo
«liquiderà» il Pkk. Non solo non discuterà con il Partito Kurdo
dei Lavoratori (di cui ieri l’esercito vantava di aver ucciso 610
combattenti dalla fine di luglio), ma neppure con l’Hdp, opposizione
turca di sinistra democraticamente eletta ma accusata dal governo di
essere portavoce politica dei “terroristi”: «D’ora in poi né
l’organizzazione separatista né il partito sotto il suo controllo
saranno accettati come controparti. I loro sindaci, i loro comuni, i
loro parlamentari risponderanno alla giustizia per quanto hanno fatto».
Nella visione accentratrice di Erdogan tutti sono nemici: attivisti,
civili, intellettuali, giornalisti. E ovviamente anche i rappresentanti
dell’opposizione. Con una campagna repressiva senza precedenti la
magistratura turca – burattino nelle mani autoritarie del capo Erdogan –
ha aperto fascicoli di inchiesta contro 36 sindaci (alcuni già in
custodia cautelare) e circa 50 consiglieri municipali dell’Hdp, con la
folle accusa di tentato golpe. Il primo giudizio è già stato sfornato:
il sindaco di Van sconterà 15 anni di prigione per sospetta appartenenza
al Pkk.
Questa è la Turchia plasmata da un Erdogan ormai fuori controllo. E a
poco serve la timida proposta del commissario Ue all’Allargamento e
alla Politica di Vicinato, Johannes Hahn, che mercoledì ha indicato nel
«processo di pace [con il Pkk] la migliore opportunità per risolvere un
conflitto costato già troppe vite». Serve a poco perché a
soffocarne le parole sono i tre miliardi di euro promessi dall’Europa ad
Ankara per bloccare i rifugiati e la necessità degli Stati Uniti di
avere la Turchia al proprio fianco a pochi giorni dal negoziato siriano.
Siria, dialogo rinviato?
A raffreddare gli accesi animi turchi sulla Siria sarà il vice
presidente Usa Joe Biden che domani incontrerà il premier Davutoglu e il
presidente Erdogan: obiettivo è disegnare la comune strategia sul
dialogo siriano, ancora traballante. Il tavolo di Ginevra tra governo e
opposizioni dovrebbe aprirsi lunedì 25 gennaio. Fino a mercoledì
il segretario di Stato Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov da
Zurigo millantavano puntualità ma ieri l’inviato Onu per la Siria de
Mistura ha prospettato il probabile rinvio: uno o due giorni di ritardo
per recapitare gli inviti alle parti. Inoltre, specifica Kerry,
i due team di negoziatori non discuteranno vis-à-vis, ma incontreranno i
mediatori internazionali separatamente.
Quindi si inizia? Difficile dirlo proprio a causa dei famigerati
inviti. Ancora non è chiaro chi volerà in Svizzera, viste le distanze
che restano tra l’asse Russia-Iran e il fronte Usa-Golfo-Turchia. Ieri
Ankara tornava ad accusare la Russia di ostacolare il negoziato perché
vuole al tavolo anche le Ypg, le unità di difesa dei kurdi siriani di
Rojava, ma secondo Ankara terroriste perché legate al Pkk. Mosca (che
ieri ha dispiegato navi da guerra lungo la costa siriana, ufficialmente a
difesa degli aerei che bombardano i jihadisti) risponde a tono
accusando i turchi di inviare ad Aleppo armi e rinforzi ai gruppi
islamisti al-Nusra e Ahrar al-Sham. E minaccia le opposizioni: se la
Coalizione Nazionale (federazione dei gruppi moderati anti-Assad) non si
presenterà al tavolo, a negoziare con il governo sarà qualcun altro.
Magari proprio lo spauracchio turco, i kurdi delle Ypg.
Punta i piedi anche il governo di Damasco: fuori dal negoziato gli
islamisti, da Ahrar al-Sham a Jaysh al-Islam, sostenuti dal Golfo. Proprio
ieri, però, Riad Hijab, capo della commissione delle opposizioni nata a
Riyadh a dicembre nel noto meeting delle opposizioni, ha nominato tra i
capi negoziatori Mohammed Alloush, nuovo leader dei salafiti di Jaysh
al-Islam (alleati dei qaedisti di al-Nusra). Così, mentre
minacciano di boicottare il dialogo se Mosca ci infilerà il naso, le
opposizioni moderate si presentano a braccetto con gruppi radicali
pretendendo di dettare l’agenda.
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