di Michele Giorgio – Il Manifesto
È composto da 32
ministri, provenienti da tutto il Paese, il governo di unità nazionale
libico del premier Fayez al Sarraj di cui è stata annunciata ieri la
formazione. È una delle poche certezze di questo sviluppo politico,
sotto l’egida dell’Onu, in una Libia nel caos, sempre spaccata tra Est e
Ovest, dove, mentre milizie e fazioni opposte continuano a scontrarsi,
Daesh, lo Stato islamico, guadagna posizioni con infiltrazioni nelle
regioni meridionali del Paese dove rafforza i legami con le formazioni
jihadiste nell’Africa subsahariana.
Ottimista, più per ruolo che per convinzione, l’inviato speciale
dell’Onu per la Libia, Martin Kobler. «Mi congratulo con il popolo
libico e il Consiglio presidenziale per la formazione del governo di
accordo nazionale», ha dichiarato Kobler, esortando l’HoR, il parlamento
insediato a Tobruk, a «riunirsi prontamente» e «ad approvare il
governo». L’inviato speciale ha però ricordato che «davanti c’è un duro
lavoro».
Kobler ha ragione. Prima dell’intesa due membri del Consiglio
presidenziale hanno lasciato i lavori in segno di protesta per l’esito
dei negoziati. La mancanza dell’unanimità contribuisce a far nascere
debole un governo chiamato ad affrontare oltre alla questione Daesh
anche la precaria situazione umanitaria, economica e sociale in cui
versa la Libia. Tutti sanno che adesso viene la parte più
delicata: i nomi dei ministri scelti attendono di essere approvati dalla
Camera dei Rappresentanti di Tobruk che da settimane non riesce a
raggiungere il quorum per una votazione. E non sarà facile far
digerire l’accordo alle varie milizie armate che controllano e di fatto
paralizzano Tripoli con le loro azioni. Non è affatto scontato che
l’esecutivo avrà la sua sede nella capitale.
Il nuovo governo è fragile in ragione proprio della sua composizione,
frutto di mediazioni sfiancanti tra innumerevoli interessi. La scelta
per il ministero degli esteri di Marwan Abusrewil, membro di una
famiglia con legami in ogni parte del Paese, è palesemente indirizzata a
tenere in equilibrio gli interessi dell’Est e dell’Ovest. Tobruk ha
strappato l’importante ministero del Petrolio, che andrà a Khalifa
Abdessadeq.
Il dicastero della Difesa, quello che aveva creato maggiori tensioni
durante le trattative, andrà a Mahdi al Barghati, uno dei comandanti
dell’Esercito di Bengasi, vicino fino a qualche tempo fa al potente
generale Khalifa Haftar. Il destino di quest’ultimo grava sulla
stabilità dell’esecutivo.
Per anni uomo della Cia, ora sostenuto apertamente dal presidente
egiziano al Sisi, considerato dall’Occidente, fino a qualche mese fa,
l’uomo forte in grado di affrontare la minaccia di Daesh e mettere fine
al caos, non figura nel nuovo mosaico politico e di sicurezza della
Libia. È difficile credere che sia rimasto tagliato fuori, impossibile
pensare che accetti di farsi da parte. Haftar resta in attesa di
un incarico di eccezionale rilievo, soprattutto dal punto di vista
militare. Altrimenti potrebbe rientrare in gioco alla sua maniera, come
ha sempre fatto.
La Libia “rischia” di recuperare dopo quattro anni un po’ dell’unità
nazionale perduta a causa della “rivoluzione” e l’eliminazione di Muamar
Gheddafi. L’Onu ha aperto la strada al governo di Fayez al Sarraj ma
sembra averla aperta anche a un nuovo intervento armato occidentale che
vedrà l’Italia in prima linea «contro il terrorismo».
Qualche settimana fa il presidente del consiglio Renzi ha
sottolineato che «il 2016 si annuncia molto complicato a livello
internazionale, con tensioni diffuse anche vicino a casa nostra»,
aggiungendo che «L’Italia c’è e farà la sua parte, con la
professionalità delle proprie donne e dei propri uomini e insieme
all’impegno degli alleati». Più chiaro di così. D’altronde anche
Francia, Gran Bretagna e Usa non aspettano altro. «L’Occidente vuole
l’unità nazionale della Libia per poterla bombardare», ha scritto un
mese fa lo stimato giornalista ed ex analista del Guardian David Hearst.
E il nostro Manlio Dinucci ha spiegato qualche giorno fa che il piano è
in avanzata fase di preparazione. Gli Stati Uniti sono al comando. Anche questa nuova guerra sarà presentata come «operazione di peacekeeping e umanitaria».
In realtà, con il via libera del governo di al Sarraj, Washington e
gli alleati europei mirano ad occupare le zone più importanti della
Libia, a cominciare da quelle costiere per finire ai giacimenti di
petrolio finiti nelle mani di Daesh compromettendo gli interessi e gli
investimenti fatti dalle grandi compagnie petrolifere.
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