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26/01/2016

Sisi festeggia la sua rivoluzione

E’ il 25 gennaio e il presidente egiziano al-Sisi parla di Rivoluzione. Quella storica del 2011, fatta sua già un anno fa, quando lanciava proclami da presidente eletto per far dimenticare il preludio golpista. La storia scritta dai vincitori ha sempre verità favorevoli al proprio disegno e l’Egitto, spaccato in due già nei mesi seguenti il disarcionamento di Mubarak, risulta oggi ancora più frantumato. Il Paese sta conoscendo giorni addirittura più bui di quelli consolidati nel trentennio di dominio del longevo raìs, dato più volte per moribondo e coi piedi ancora ben piantati a terra, “detenuto” nella prigione dorata delle sue residenze dove anche i figli, ladri e truffaldini, circolano impunemente. Da due anni filati la più popolosa nazione araba vive il suo Termidoro, dopo aver incoronato il figlio-generale più celermente del dittatore diventato Imperatore di Francia. Quest’ultimo certe battaglie le combatteva, Sisi sta trovando avversari armati nei jihadisti del Sinai, mentre la fama di duro se l’è fatta contro la popolazione civile. Una scalata al potere macchiata di rosso sangue: quello di oltre mille, forse duemila, vittime della sua repressione solo nei due giorni d’agosto 2013.

Erano attivisti della Fratellanza Musulmana accampati innanzi alla moschea Rabaa al-Adawiya, in un’area periferica del Cairo, per protestare contro la defenestrazione e l’arresto di Mohammed Morsi, il legittimo presidente. Le vicende sono note, i media globali le trattarono a botta calda. Meno si parlò del massacro che rappresentava la macchia grazie alla quale la ‘Rivoluzione buona’ si faceva strada. Quindi gradualmente è sceso l’oblìo sul processo normalizzatore di Sisi; bastava sapere che fosse in marcia, che l’islamismo di governo fosse stato fermato. Ma le fosse e le galere, inizialmente riempite di migliaia di giovani islamici, trovavano e trovano ospiti d’ogni tendenza, lì finisce chiunque si macchi del peccato d’opposizione. Il regime che ha rassicurato un’ampia metà della popolazione egiziana, spaesata dall’approssimazione settaria del partito della Brotherhood, timorosa d’ogni cambiamento, disposta a rivestire gli stracci del suddito piuttosto che indossare i ruvidi abiti di dignità e libertà, i due princìpi irrinunciabili della Tahrir realmente rivoluzionaria, quel regime affonda le radici nel terrore. Centinaia di migliaia di cittadini l’hanno conosciuto in due anni, i più integerrimi e votati al martirio continuano a incontrarlo.

 
La quotidianità politica interna e nel Mashreq mediorientale sta mostrando diverse facce, cosicché risvolti e fughe fra l’opposizione repressa fanno pensare a scelte armate. Ora la componente jihadista organizzata nel gruppo Ansar Bait al-Maqdis mette a soqquadro il Sinai e pratica attentati in grandi centri in sinergìa col Daesh. Lo scontro attuale espropria le masse dalla lotta non necessariamente pacifica, visto che per mesi la morte ha vagato per via sull’onda d’una repressione sempre crudele, però gli oppositori islamici e laici avevano margini d’iniziativa. Il conflitto che è seguito a Rabaa sino all’elezione presidenziale di Sisi (maggio 2014) ha disegnato un quadro diverso: il consolidarsi d’un nuovo regime securitario. Peggiore di Mubarak e Sadat, peggiore del Nasser che tradiva il desiderio promesso di eguaglianza socialisteggiante, approdando alla boria personalistica. Sisi non somiglia a nessuno dei militari diventati raìs, che dismettevano l’uniforme per abiti civili e puntavano a favorire se stessi, i clan familiari, la lobby d’appartenenza. Li supera tutti per freddezza e cinismo, quelli che in luoghi come Azouly, la prigione militare a un centinaio di km nord-ovest dalla capitale. Fa vivere queste storie.

Amr venne arrestato nel marzo 2014, mentre sorseggiava un thè alla menta in un caffè della periferia cairota. Coi suoi diciassette anni era minorenne, venne comunque accusato d’essere un affiliato al gruppo Ansar, dunque un terrorista. Finì nella prigione citata, ma ce ne sono a decine simili in tutto il Paese, dotate di cellette della morte (un metro quadrato per uno nella totale impossibilità di distendersi e senza poter usufruire del gabinetto) dove si può restare per settimane nell’angoscia e nel fetore. Non sono luoghi di detenzione ma di tortura psico-fisica, coi metodi conosciuti di botte semplici (calci, pugni) o particolari (bastoni, sacchetti di sabbia), scariche elettriche, getti d’acqua gelata in ogni stagione, tecnica dell’affogamento in vasche o secchi. E stupri nei confronti di donne e uomini, soprattutto adolescenti e giovani. Un Egitto anche peggiore di quello conosciuto da Samira, la studentessa abusata da un ufficiale-medico dell’esercito nel Museo del Cairo durante le settimane di sogno di libertà, l’Egitto che voleva allontanare lo spettro del massacro di Khaled Said, il cui decesso e la vibrante protesta fece da anticamera alle rivolte della dignità del 25 gennaio.

Soffocate dalla violenza e dalla paura di finire in quei luoghi, perché quell’Amr, che jihadista non era rimase per due anni con la vita appesa a un filo venendo fuori dall’inferno di Azouly solo sull’onda degli interventi di Associazione dei Diritti mobilitate per la liberazione dei tre giornalisti di Al Jazeera. Ma altri reporter, e blogger, e militanti laici restano rinchiusi. Mentre di centinaia di loro si son perse le tracce. Iniziarono i ribelli delle strade, alcuni erano appunto i tamarod, su cui i partiti laici che aprirono gli spazi per Sisi contro la Fratellanza, avevano puntato. Sono diventati vittime di colui che osannavano, alla stregua di tanti islamisti spariti nel nulla. Molti di loro, giovanissimi e senza famiglia non hanno avuto nessun parente che ne rivendicasse la scomparsa. Eppure si sono dematerializzati anche tanti figli e fratelli e sorelle e padri e mariti d’un pezzo d’Egitto rimasto monco di migliaia di vite umane. Di questo il regime non parla, al contrario recita il ruolo del buon amministratore sostenendo, come fa Fattah Osman responsabile delle relazioni esterne del ministero dell’Interno, che: “Quanto narra la stampa ostile alla nazione non ha nulla a che vedere con la realtà, le prigioni egiziane sono diventate come hotel”. Non specifica quante stelle abbiano questi hotel.

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