di Antonio Drius
Una nuova ondata di
scioperi. A dicembre in diverse regioni dell’Egitto, da Assiut a Suez,
al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento,
delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: le loro
rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità
riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi
lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di
privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak. Molte di
queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate
davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità,
rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.
Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro e in gran parte
slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito a metà
dicembre al Cairo. Ma rappresentano comunque una realtà molto
significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non
del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione
neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal
2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo
slogan “Pane, Libertà, Giustizia Sociale” non sono riuscite
sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un
contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto
dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative
popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per
sé una spinta importante per il cambiamento.
Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla
pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi,
pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su
cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della
società civile.
Il sindacalismo indipendente
La giornata di venerdì 11 dicembre ha visto svolgersi un vibrante
incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati
(CTUWS), fondato nel 1990, tra i punti di riferimento del sindacalismo
indipendente egiziano. Sebbene la sala più grande del Centro abbia un
centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a
contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto
l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto
attuale del paese.
L’occasione è data da una circolare del consiglio dei
ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il
sindacato ufficiale ETUF (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.
Sebbene oggi il CTUWS non sia rappresentativo della complessa
costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è
stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto
significativo di sindacati. Alla fine, saranno una cinquantina
circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura,
rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate
regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio
settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta,
Alessandria, e il Cairo. La circolare del governo, infatti,
rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle
libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare
del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento
molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere
forma in iniziative concrete.
Movimento in crisi
Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente
espansione dello spazio di agibilità politica. Si è assistito alla
nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di
cui il CTUWS è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione. Tuttavia, negli ultimi due anni,
repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente
indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni
(la EDLC e la EFITU) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013.
Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale
o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi
però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione
all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito
contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di
lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza. È certamente
questo, nonostante i molti limiti, il dato più importante da registrare
della giornata di venerdì.
Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso
appassionati e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e
decidere insieme il “cosa fare da domani mattina”, un appello ripetuto
come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la
necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine. Da
notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi
sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea
a maggioranza maschile.
L’incontro dell’11 dicembre si è concluso con la decisione di
formare un comitato il più possibile rappresentativo dei presenti, che
si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del
lavoro e delle libertà sindacali. L’idea è quella di
organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di
pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una
manifestazione unitaria di protesta (“a Tahrir!” diceva anche qualcuno
tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione
rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata
a qualsiasi forma di protesta). L’agenda sembra decisamente
ampia e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la
legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del
settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.
Uno sguardo all’Italia
La strada appare ancora lunga e accidentata, ma è unicamente da
questi fermenti sociali che può scaturire la speranza per un Egitto
realmente democratico. E gli sviluppi di queste iniziative meritano di
essere seguiti con attenzione e vicinanza, anche da questa parte del
Mediterraneo. Sono gli stessi sindacalisti egiziani che ce lo chiedono,
facendo appello a realtà sociali simili a loro in Italia e in Europa,
per sviluppare forme di scambio, solidarietà e cooperazione che possano
rafforzarli e incoraggiarli in questa delicata fase storica. Questi
esperimenti dal basso potrebbero forse indicare anche a noi nuove
traiettorie per un sindacalismo – al contempo combattivo e democratico –
al passo con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione del
ventunesimo secolo.
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