Un articolo di Angelo D'Orsi, storico e docente dell'università di Torino su Il manifesto di oggi.
«Non arretro!», «L’Italia va avanti...», «Non andremo più col cappello in mano», «Ci vorrebbero deboli e invece siamo tornati forti». E via seguitando in un repertorio di detti (troppi) e fatti (pochi), attribuibili al nostro presidente del Consiglio, che richiamano altri “capi”, in particolare uno, di parecchi decenni or sono. Se scrivo il suo nome, mi attiro insulti. A stupire non è Matteo Renzi, la cautela con cui le sue esternazioni da bullo verso l’Unione europea, vengono commentate, o peggio il silenzio imbarazzato in cui risuonano.
Possibile che non si colga negli accenti, nei toni, nei modi, oltre che negli argomenti, usate dal bullo di Rignano sull’Arno un sentore di fascismo? O forse è che davvero, come si insinua in un libro appena uscito (di Tommaso Cerno, “A noi!”, Rizzoli), in fondo noi italiani siamo avvezzi a quei toni, a quel lessico, a quei modi? In fondo non abbiamo mai fatto i conti con il fascismo, ed esso riemerge, non solo e non tanto nelle Case Pound et similia, ma proprio per queste vie. Si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta. E, soprattutto, il fascismo affiora in prese di posizione all’insegna di un nazionalismo ridicolo, nella prosopopea dell’Italia “Grande Paese”, nel ritornello del “primato degli italiani”, nella retorica del “ve la facciamo vedere noi”, nel mostrare muscoli (che non si hanno) e nell’agitare pugni (che in vero son quelli di un bamboccio).
E più si fa la faccia feroce più si suscita commiserazione, anziché rispetto, fastidio anziché attenzione, insofferenza invece che apprezzamento. Con questo non dico che Matteo Renzi sia un fascista, ma dico che nei suoi comportamenti, nel suo stile, nelle sue parole richiama direttamente una stagione che in qualche modo persiste, e che, riveduto e lustrato, oggi proprio lui possa essere visto come il legittimo titolare di un nuovo regime in costruzione, autoritario, populista e plebiscitario. Il referendum che sta invocando e proclamando da giorni, è il primo plebiscito della storia italiana, che assomiglia precisamente a quello del marzo 1929: siete con il duce o siete contro? La differenza è che allora alla porta del seggio c’erano i militi fascisti, e che l’elettore si trovava davanti due schede, una col Sì e una col No, in bella mostra.
Anche chi abbia a cuore, da un punto di vista liberaldemocratico, la dignità del Paese, non dovrebbe sottovalutare quello che sta accadendo. Come sempre, ci facciamo ridere dietro: emblematica l’ormai famosa conferenza stampa con il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, trasmessa alla televisione francese con i salaci commenti del giornalista in studio, con il nostro premier che sbadiglia, giochicchia col cellulare, manda messaggini, guarda in alto, quando parla Schultz, mentre, al contrario, questi è attentissimo e interloquisce opportunamente quando la parola è al collega italiano. Un video diventato giustamente virale. Ma non è solo questo. Non è solo l’eterna rappresentazione della commedia italiana. La parodia della politica stile Alberto Sordi, o, considerato l’epoca e i personaggi, nello stile di una modesta imitazione del grande Sordi.
Dicevo, non è solo questo, tuttavia. È proprio ricorrendo a tal genere di comportamenti, che si innescano processi che non si sono in grado di controllare, e di cui, soprattutto, non si possono prevedere gli esiti. Se si vuole perseguire la rottura dell’Unione, o la fuoruscita dall’euro – obiettivi pesanti, discutibili, rischiosi, ma indubbiamente leciti –, non è certo questa la via maestra. Né sono scelte che possano essere demandate al governo e neppure al solo Parlamento.
Sono scelte che concernono tutta la popolazione ed essa nella sua interezza dovrebbe essere posta in grado di dire la sua. In ogni caso, la strada su cui si è incamminato il premier, con il suo partito piegato ai suoi voleri, invece è irrituale, come si dice in linguaggio diplomatico, tortuosa, piena di inganni e di disonestà. Ed è una via che non è consentita, in particolare, ad una nazione che nel Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, non ha fatto proprio una gran figura, con i nostri deputati di solito personaggi trombati nel Parlamento nazionale, o tratti dai grandi vivai della radiotelevisione, da Iva Zanicchi a Gerry Scotti, notoriamente assenteisti, o vistosamente disinteressati al ruolo che hanno conquistato.
Ma non siamo ancora al punto cruciale, che invece mi pare un altro, e si tratta di una domanda: come mai Renzi “sfida l’Europa” (così alcuni titoli roboanti sui giornali), con tanta disinvoltura? Magari per ottenere consenso popolare in patria. Esattamente come il suo lontano, ma non dimenticato e sin qui innominato predecessore. Alzare il tiro, inventarsi dei nemici, per giustificare i mancati risultati, per rinsaldare il proprio potere, per annullare ogni dissenso. Nemici interni (i “gufi”, quelli che remano contro, gli “sfascisti”…), o esterni: la Germania, o l’Unione tutta. “Molti nemici, molto onore”? Il consenso, uno statista lo cerca e lo ottiene, per vie democratiche (mi tocca ricordare che stiamo aspettando che il sig. Matteo Renzi venga legittimato da una votazione ai sensi di legge, non dai gazebo del suo partito), sulla base dei risultati ottenuti, concreti, verificabili; il leader autoritario-populista lo cerca per altra via, che è precisamente quella perseguita con tanta sfrontatezza da Matteo Renzi. «Roma non è nuova a questi scenari», scriveva Antonio Gramsci nel 1924, e li definiva «polverosi». «Ha visto», continuava «Romolo, ha visto Cesare Augusto, e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo». E, possiamo rivelarlo, si riferiva a chi allora sedeva nelle stanze del potere, tal Benito Mussolini.
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