Il minacciato sgombero di Esc, a cui diamo comunque la nostra solidarietà, non può certo definirsi un fulmine a ciel sereno. È invece l’ennesimo tassello di una stagione segnata dal commissariamento della politica. Il problema non è la difesa di questo o quel centro sociale, sebbene ovviamente necessaria (come Esc, si trovano sotto sgombero il Corto Circuito, Casale Falchetti, l’Auro e Marco, mentre per la Casa della Pace e Degage già si è provveduto in estate; per non parlare delle decine di occupazioni abitative perennemente in bilico). Il problema è che non è possibile alcuna resistenza “militare” che non passi per un riequilibrio dei rapporti di forza politici. Oggi questi sono al punto zero. Se Prefetto o Commissario decidessero di sgomberare tutto, la resistenza che potremmo mettere in campo sarebbe, in tutta onestà, ininfluente. Per ripartire dovremmo allora capire perché oggi la nostra capacità d’influenza politica è azzerata. È questa la domanda che ci pone la minaccia di Tronca: non “come faremo a resistere”, ma: come siamo arrivati a questo punto?
Anche perché, alla prima domanda, non c’è risposta: in queste condizioni non si può resistere. Questo non vuol dire arrendersi, chiaramente, ma dovremmo operare un salto di sincerità almeno fra compagni: immaginare una nostra capacità di invertire la rotta confrontandoci militarmente con il potere, come se fosse l’uso della forza la discriminante capace di fermare la volontà di pacificazione, significherebbe raccontarci una favola che ha davvero fatto il suo tempo. Alla prova dei fatti, si è dimostrata tutta l’inconsistenza della propria presunta “volontà di resistenza”. È per questo che una riflessione pure azzeccata e che condividiamo (Tana delibera tutti) rimane monca. Certo, una politica che non riconosce il valore sociale degli spazi autogestiti è un problema, va denunciata e smascherata, ma allora: il sindaco Rutelli era invece espressione di una sinistra antagonista che “riconosceva il valore sociale degli spazi autogestiti”? Il successore Veltroni, anche lui esponente dei movimenti antagonisti probabilmente, difendeva e valorizzava il ruolo sociale e politico dei centri sociali? Oppure, più propriamente, Rutelli e Veltroni trovarono di fronte a loro un movimento capace di imporre un rapporto di forze, a cui furono costretti a cedere pezzi di potere e legittimità? Soggettivamente Tronca, Gabrielli, Veltroni e Rutelli fanno parte dello stesso centrosinistra che ieri approvava la delibera 26 e oggi procede convinto nella propria politica della ruspa. Come detto, la domanda che dovremmo porci è “come siamo arrivati a questo punto?”, com’è possibile che un sindaco decida di chiudere ogni spazio di mediazione procedendo alla rimozione degli ostacoli politici per via amministrativa, poliziesca e giudiziaria? Questa domanda è per definizione più problematica della prima. Facile accusare il potere, gridare alla solidarietà e analizzare le contorsioni repressive della controparte; molto più difficile (e serio) sarebbe rilevare tutta la sequenza storica di errori che condividiamo come movimenti, per riattivare processi di partecipazione e di (ri)legittimazione politica capaci di imporre un punto di vista. La resistenza agli sgomberi non si realizza bruciando qualche cassonetto, ma impedendo alla politica di immaginare lo sgombero stesso o, nei casi estremi, attivando le relazioni politiche e sociali capaci di smontare l’idea stessa di uno sgombero provocando un moto d’indignazione generale. Quelle relazioni politiche e sociali sono completamente assenti nei recenti sgomberi, soprattutto a Roma. Le vicende di movimento rimangono confinate al movimento stesso, non intercedono con la realtà circostante, non assumono valore rilevante per il resto della cittadinanza. Lo sgombero di un posto occupato è un fatto che interessa i diretti interessati e basta, lasciando indifferente la società che si dovrebbe organizzare e provare a conquistare alle proprie ragioni.
Ovviamente il problema, almeno per noi, non è il livello di conflittualità praticato nella resistenza ad uno sgombero, che dev’essere senza mediazioni e può e deve essere radicale. Il problema è che oggi, nel contesto concreto degli attuali rapporti di forze presenti in città, la partita non si gioca su quel piano. Non sarà la retorica della resistenza a invertire la rotta. Operare una feticizzazione di uno strumento fra tanti della lotta politica può sollevarci la coscienza nelle nostre serate tra compagni o nelle assemblee dove piace ascoltare la propria voce, di certo non incutere una qualche forma di timore al potere cittadino. Il potere non ha paura delle barricate promosse da un soggetto militante avulso da reali percorsi di inclusione e rappresentanza di interessi generali, sociali e politici.
Una delle riflessioni che dovremmo avere il coraggio di produrre pubblicamente è che oggi dei 35 o chissà quanti centri sociali romani, forse un terzo, ad essere davvero generosi, è effettivamente un luogo di aggregazione politica capace di lavorare nei quartieri (al di là della nostra condivisione o meno della linea politica). Esiste davvero un “valore sociale degli spazi autogestiti”? Per qualcuno sicuramente, di certo non per tutti. E ogni sgombero non è uguale ad un altro, non riveste la stessa rilevanza. Alcuni spazi, abbandonati da anni o, peggio, inseriti nei percorsi della movida romana, del divertimentificio metropolitano, macchine da soldi che fondano il proprio guadagno sul lavoro nero dei propri dipendenti mascherati e grazie ai processi di gentrificazione, non solo non rivestono alcun ruolo sociale progressivo, ma fanno parte del problema. Il fatto è che tale riflessione è già introiettata dalla gente che vive nei pressi di qualcuno di questi “centri sociali”, e la mancanza di una nostra riflessione pubblica ci ha schiacciati tutti su di un pregiudizio, magari disinformato, ma che a volte rileva dati che noi non riusciamo più a interpretare. Per di più, se è vero che la riappropriazione di spazi pubblici o privati abbandonati costituisce sicuramente un fatto positivo, va anche detto che in questi anni la moltiplicazione degli spazi è andata a braccetto con l’arretramento generale dei movimenti cittadini. Non è il numero degli spazi allora a certificare la qualità del proprio intervento, ma come questi spazi lavorano nei territori e, più in generale, la capacità che l’insieme unitario di questi ha nell'incidere nella politica cittadina. In questi anni è sembrato delinearsi un rapporto inverso: più inutili divenivamo come sinistra antagonista, più posti occupati spuntavano come funghi nella metropoli desertificata e lasciata allo sbando. Chiarendo così che non sarà la moltiplicazione delle occupazioni a reintrodurre percorsi reali di partecipazione. Mai come in questo caso, meglio meno ma meglio. Ovviamente in questo caso ci riferiamo agli spazi sociali, non alle occupazioni abitative, che affrontano una situazione diversa. Ma questo, in fin dei conti, è l’aspetto secondario della questione.
L’aspetto principale risiede nella nostra capacità intesa unitariamente di incidere nella politica cittadina. Qualcuno oggi si lamenta della diversità politica delle anime che compongono il movimento residuale romano. Eppure, a ben vedere, non solo certe differenze sono sempre esistite, ma negli anni passati erano decisamente più profonde e radicali e a volte violente, ma questo non impediva un coordinamento su molte battaglie, coordinamento che infatti produceva un accumulo di forze nonostante le differenze politiche profondissime. Questo per alcune ragioni, la principale delle quali era l’assoluta consapevolezza di non essere autosufficienti per cambiare lo stato di cose presenti. Oggi al contrario lo spirito di autosufficienza si è impadronito dei ragionamenti collettivi. L’immediato smarcamento generale dalla manifestazione del 28 febbraio scorso è in tal senso paradigmatico. Di fronte alla più importante, riuscita e rilevante manifestazione romana da anni a questa parte, l’interesse trasversale continuava ad essere quello di rimarcare le differenze con chi era in piazza, facendo fallire un esperimento che invece aveva costruito un metodo di lavoro. Ognuno rimanendo con le proprie diversità, esistevano ed esistono dei terreni comuni su cui provare ad esercitare egemonia facendo politica, cioè liberandoci dal vertenzialismo parossistico in cui siamo finiti come movimenti. Per chi non se ne fosse accorto, la crisi economica cancella ogni possibilità di redistribuzione vertenziale dei redditi, ogni possibile riformismo. Senza possibilità di redistribuzione non c’è possibilità di costruire consenso e quindi legittimazione: viene disattivata in tal senso la possibilità stessa della mediazione politica, come infatti evidente dal progressivo e in apparenza inarrestabile processo di commissariamento della politica. Oggi lo scontro è direttamente politico, nel senso che il piano della lotta o si pone direttamente sul terreno dei rapporti politici, oppure è destinato a fallire o, nel migliore dei casi, a vivacchiare reiterando se stesso, come dimostra la parabola del sindacalismo confederale.
Per queste e altre ragioni, oggi piangersi addosso e gridare all’attacco repressivo contro i movimenti non ci porterà molto lontano nella strada per ricostituire un rapporto di forze credibile capace di impedire gli sgomberi. Non per questo ci sono soluzioni a portata di mano e attuabili nel breve periodo. Ma oggi la scommessa è quella di rappresentare un pezzo di società impoverita dalla crisi, ri-legittimandoci nella società, quella oggi sedotta dalle sirene di Salvini o del Movimento 5 Stelle, che resistono elettoralmente proprio perché capaci di rappresentare un punto di vista politico pur nella loro assenza sociale. Quale punto di vista politico esprimono i movimenti? Difficile capirlo.
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