Nel XXV capitolo Capitale, Marx, nel corso di una polemica sulle cause del ritardo (erano altri tempi!) del capitalismo americano nei confronti di quello europeo, richiama l’attenzione sull’enorme disponibilità di terra che le vaste regioni inesplorate del continente mettevano a disposizione dei coloni disposti a correre rischi per strapparla ai nativi e metterla a frutto. Perché, si chiede, la gente giunta qui da tutto il mondo dovrebbe preferire il salario miserabile e le dure condizioni di lavoro offerte dagli industriali della costa orientale alla corsa verso Ovest?
Quella stagione è ormai lontana nel tempo, la schiacciante maggioranza dei coloni e dei loro discendenti lavora oggi nelle grandi città, mentre la terra è quasi tutta nelle mani dei monopoli agroindustriali, per cui ci si potrebbe aspettare che la cultura dei coloni, con la loro orgogliosa rivendicazione di indipendenza e autonomia nei confronti dello Stato federale, sia un lontano ricordo. Eppure non è così. Basti pensare alla resilienza di certi valori che stanno alla base dei successi elettorali del Partito Repubblicano, o alla persistenza del mito della Frontiera nella narrazione filmica e letteraria, dal western alla science fiction. Per tacere della vera e propria rinascita di cui questa narrazione ha potuto godere grazie al mito della Rete, con scrittori cyberpunk, giovani fondatori di startup e hacker del software e dell’hardware nei panni di novelli eroi dei grandi spazi (virtuali) aperti, liberi e selvaggi (un’illusione ahimè durata poco).
Non solo il mito è duro a morire, ma capita che a volte si ripresenti sotto le sembianze “classiche” della comunità locale che insorge per difendere le proprie ragioni nei confronti di “quelli di Washington”. È il caso di un manipolo di membri della milizia dell’Oregon che da qualche settimana occupano un parco naturale tutelato da leggi federali e si dicono disposti a tutto per tenere la posizione. L’oggetto del contendere è il diritto, rivendicato dagli allevatori e contestato dal governo, di far pascolare liberamente gli animali sul terreno federale (sottoposto a vincolo per tutelare specie a rischio di estinzione e siti di interesse archeologico per la cultura dei nativi).
Sembrerebbe un caso da manuale di conflitto attorno a un common: libero accesso (con il rischio che la risorsa in questione venga devastata), privatizzazione o proprietà pubblica con accesso regolamentato? In realtà il conflitto è ancora più complesso, in quanto i “ribelli” sono portatori di un’ideologia anarco capitalista che li vede insofferenti verso molti altri limiti imposti dall’autorità statale. Non è un caso se la querelle – di dimensioni tutto sommato limitate – è assurta all’attenzione dei media nazionali (e non solo): perché chiama in causa valori cari a quella parte dell’elettorato repubblicano che sostiene Donald Trump nella corsa alla nomination per le elezioni presidenziali. Siamo dunque di fronte a una paradossale commistione fra rivendicazioni autonomiste e libertarie e ideologie destrorse (le tendenze razziste e fascistoidi delle milizie, come la loro passione per le armi, sono note).
Per inciso, il punto di vista di certi post operaisti nostrani che esaltano il lavoro free lance e credono di rintracciare nella Nuova Economia presunte “ambivalenze”, che offrirebbero a questi soggetti l’opportunità di acquisire una reale autonomia nei confronti di capitale e stato, da un lato, evoca nostalgie della resistenza alla proletarizzazione di artigiani europei e coloni americani fra fine '700 e prima metà dell’800 (e fin qui niente di male), dall’altro rischia di associarli a scomodi compagni di viaggio.
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