La settimana scorsa si è svolta la United States Conference of Mayors, un evento annuale che riunisce centinaia di sindaci americani e che, oltre a richiamare l’attenzione dei media, svolge un importante ruolo politico, in quanto può contribuire a uniformare le scelte di un gran numero di amministrazioni locali. La Conferenza di quest’anno è stata, fra le altre cose, teatro di un duro scontro fra due lobby contrapposte: da un lato i rappresentanti di uno degli astri nascenti della Sharing Economy, quella società Airbnb che organizza e gestisce lo scambio di ospitalità a pagamento fra abitanti di tutto il mondo, dall’altro le associazioni degli albergatori.
Le accuse incrociate fra i duellanti sono note. Airbnb si presenta, al pari di Uber, come campione di una “economia della condivisione” che consente alla classe media di viaggiare a costi più bassi, sottraendosi allo strozzinaggio dell’industria alberghiera che impone prezzi monopolistici. Gli albergatori ribattono che Airbnb offre ai clienti livelli di servizio e sicurezza neanche lontanamente paragonabili ai propri (e spesso inferiori a quanto richiesto per legge) ma soprattutto (argomento cui le amministrazioni locali sono particolarmente sensibili) accusa la controparte di evadere le tasse (in quanto i compensi versati ai locatari si sottraggono al controllo).
Non a caso, Airbnb si è presentata alla Conferenza promettendo di trasformarsi in tempi brevi in un formidabile collettore di imposte per le amministrazioni (ha addirittura accennato alla possibilità di raccogliere 200 milioni di dollari all’anno). Eppure, malgrado abbia assoldato una nutrita squadra di lobbysti (perlopiù consulenti dell’amministrazione federale in carica, in cerca di alternative nell’imminenza della fine del mandato di Obama) continua a incontrare la diffidenza di molte città (fra cui New York e Los Angeles), alcune della quali stanno addirittura ragionando sulla possibilità di limitare la possibilità di affittare abitazioni a breve termine.
Il punto che determina diffidenze e resistenze, riguarda il dubbio su chi siano realmente i locatari. Airbnb tende ad accreditare l’idea che siano perlopiù comuni cittadini che arrotondano il reddito mettendo a frutto la propria casa quando devono allontanarsene per motivi di lavoro o di svago. Idem per gli affittuari: gente comune (soprattutto giovani) che vuole viaggiare senza spendere troppo. Invece pare che la realtà sia meno edificante: una quota significativa del business Airbnb riguarderebbe multiproprietari di appartamenti che non intendono affittare occasionalmente, bensì sistematicamente e per brevi periodi successivi, danneggiando il mercato degli affitti a lungo termine a prezzi abbordabili e contribuendo in tal modo al processo di gentrizzazione dei centri urbani.
Le analogie con il caso di Uber, del quale mi sono più volte occupato su queste pagine mi paiono evidenti. La cosiddetta Sharing Economy si fonda su modelli di business che sfruttano le nuove tecnologie, non per affrancare i consumatori dai vecchi, odiosi intermediari della “vecchia” economia, bensì per sostituirli con nuovi intermediari (che aspirano a posizioni monopolistiche ancora più salde) che estraggono rendita da proprietà altrui (automobili, case o altro). I veri beneficiari non sono i consumatori, né i piccoli proprietari chiamati a “condividere” le proprie risorse, ma questi nuovi colossi della Internet Economy che instaurano con i propri “fornitori di servizi” lo stesso rapporto che i latifondisti avevano con i mezzadri.
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