Panagiotis Sotiris è uno studioso marxista e un attivista politico greco, i cui interventi durante i giorni del referendum nel suo paese, la capitolazione di Tsipras, la nascita e la sostanziale sconfitta di Unità Popolare ci sono sembrati particolarmente interessanti. Come teorico ha lavorato, tra le altre cose, su Louis Althusser, Nikos Poulantzas e Antonio Gramsci, oltre che all’analisi degli sviluppi politici e sociali in Grecia. Come militante è stato per lungo tempo membro di ANTARSYA, Fronte della sinistra anticapitalista greca, e nell’estate 2015, dopo la scissione in Syriza, si è unito, insieme ad altri suoi compagni, a Unità Popolare. Questa intervista vorrebbe essere un primo contributo, speriamo presto seguito da altri, ad un dibattito che sappia affiancare alla critica all’Unione Europea una ricerca sulle condizioni e sulle possibili forme della sua rottura.
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Dopo il risultato delle elezioni greche la rivista online “Jacobin” ha ospitato un tuo intervento che indicava una serie di snodi sui quali riflettere per iniziare a comprendere le ragioni del modesto risultato di Unità Popolare. Tra queste ragioni segnalavi una certa sottovalutazione della complessità interna ai meccanismi della rappresentanza e l’incapacità di Unità Popolare nel porsi non come una variante minoritaria di Syriza, ma come il catalizzatore di un “nuovo fronte”, organico ai movimenti e alle dinamiche dell’antagonismo sociale. La nostra prima domanda è, dunque, d’obbligo: a che punto è, a tuo parere, la riflessione su questi temi all’interno di Unità Popolare e, più in generale, nella sinistra greca che si oppone ai diktat della UE?
Come si può capire per la sinistra greca è un momento difficile e di transizione. Tuttavia, per quanto giustificata possa essere, la semplice denuncia della capitolazione di SYRIZA e la sua piena approvazione dell’austerità e delle riforme neoliberiste non basta. Ciò che è necessario è un profondo processo di riflessione critica e autocritica, al fine di comprendere appieno le carenze strategiche, politiche e ideologiche della sinistra greca, che hanno portato a questo tipo di sconfitta. In un certo senso, quello che è successo in Grecia ha reso evidente la crisi strategica di tutte le tendenze della sinistra. L'europeismo e il governismo ingenuo di SYRIZA e, più in generale, dell’attuale euro-sinistra riformista, ha dimostrato di essere la 'via maestra' verso la capitolazione, la sconfitta e il neoliberismo. D’altro canto, il rifiuto della sinistra anticapitalista di affrontare le questioni di potere politico e la questione egemonica ha fatto sì che la sua corretta posizione anti-UE non potesse essere trasformata in una valida alternativa. Il settarismo rinunciatario del Partito comunista, nonostante la sua logorrea anticapitalista, ha significato – in ultima istanza – essere un alleato delle forze sociali dominanti. Forse una spiegazione dei problemi della sinistra greca sta nel fatto che nel 2015, da un punto di vista strategico, la maggior parte delle tendenze venivano ancora pensate come nel 2009. Inoltre, nonostante il fatto che si fosse andati verso un ciclo di protesta di tipo quasi insurrezionale e dinamico – un ciclo che comprendeva nuove forme di democrazia, di lotta dal basso, nuove forme di solidarietà e di autogestione – questo periodo non ha rappresentato un processo di apprendimento per la maggior parte delle tendenze della sinistra radicale greca. Si deve anche tenere conto del fatto che, sebbene militanti di sinistra fossero funzionali allo sviluppo del movimento, allo stesso tempo la relazione della sinistra è rimasta “esterna” e non “organica” alle classi subalterne. Di conseguenza, la sinistra greca e in particolare SYRIΖΑ, è aumentata elettoralmente, ma non abbiamo assistito all'emergere di un nuovo 'blocco storico'.
Per quanto riguarda Unità Popolare, è ovvio che in quanto tale abbia presentato una rottura con SYRIZA. Una rottura necessaria e piena di speranze, soprattutto per quanto riguarda la necessità di una posizione anti-euro e anti-UE. Tuttavia, Unità Popolare deve ancora diventare il laboratorio di ripensamento della strategia necessaria alla sinistra, la pratica e il terreno di una reale autocritica. Speriamo. Ci sono segni di apertura di questo dibattito e spero che il congresso di fondazione di Unità popolare nella primavera 2016 imprima questa necessaria svolta.
Ormai il carattere postdemocratico dell’Unione europea e dei suoi meccanismi di governance appare denunciato da più parti. Lentamente anche a sinistra si sta avviando una riflessione sulla necessità di rivendicare e, in parte, di reinventare il concetto di “sovranità popolare”. Più difficile appare, però, determinare spazialmente questo concetto. Esso va pensato su scala locale, nazionale, europea? Oppure esso comporta inevitabilmente una nuova articolazione di queste dimensioni? In particolare ci sembra che sia il rapporto tra “sovranità popolare” e “sovranità nazionale” a creare i maggiori motivi di divisione all’interno della sinistra “anti-UE”. Come pensi debba essere tematizzato, oggi, questo rapporto?
Per quanto riguarda l'Unione europea, è evidente che ciò che vediamo è esattamente il cuore antidemocratico dell'intero processo di costruzione europea. Questa costante cessione di sovranità, questa condizione di sovranità limitata è un aspetto integrante dell’imposizione di una politica neoliberista aggressiva. In questo senso, oggi, per le forze del lavoro, per un potenziale 'blocco storico', il recupero della sovranità popolare è un progetto di classe antagonista alla strategia delle borghesie europee. Allo stesso tempo, il fatto che per molte tendenze dell’Euro-sinistra l'Unione europea sia un processo irreversibile non è solo una miopia teorica e politica, ma anche un indice dell’egemonia dell'ideologia borghese nei ranghi della sinistra radicale. Insisto sulla nozione di sovranità popolare, non perché sottovaluto l'importanza della sovranità nazionale, ma perché penso che il concetto di sovranità popolare comprenda la questione della sovranità dello stato-nazione, ma allo stesso tempo ponga l'accento sulla democrazia come volontà popolare (che è antagonista al liberalismo) e l’enfasi sul "popolo” come forma politica di un potenziale “blocco storico”. Vale a dire l'alleanza delle classi subalterne sotto l'egemonia delle forze del lavoro, in un’unità forgiata da una narrazione comune di trasformazione sociale e di democrazia, trascendendo le divisioni (basate su nazione, religione, genere, ecc.). Un'unità di tutti coloro che lavorano, lottano e sperano, all’interno di una particolare formazione sociale. In un certo senso abbiamo bisogno di una concezione post-nazionalista sia del popolo che della nazione, al fine di superare ogni forma di frammentazione e abbiamo anche bisogno di un nuovo internazionalismo, non basato su un certo cosmopolitismo astratto, ma sul fatto che una rottura in un potenziale “anello debole” della catena imperialista invierà onde sismiche ad altre formazioni e fornirà la base materiale per nuove forme di solidarietà e di cooperazione.
Siamo tutti coscienti delle possibili associazioni della parola sovranità con il nazionalismo, il razzismo e il colonialismo. Tuttavia qui stiamo parlando di una forma di sovranità che si basa sulla comune condizione delle classi subalterne. Si tratta di un tentativo di ripensare sia il popolo, sia la nazione in modo “post-nazionale” e post-coloniale, come comunità emergente di tutte le persone che lavorano, lottano e sperano in un particolare territorio, come la nascita di un potenziale blocco storico per la trasformazione socialista, quello a cui faceva riferimento Gramsci quando parlava del “moderno Principe […] che è il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare nel terreno di una forma compiuta e totale di civiltà moderna[1]. Allo stesso modo, l'idea deleuziana del “divenire-popolo” sottolinea il fatto che il "popolo" non è un'entità precostituita o una “maggioranza”, ma il risultato di un processo complesso e sovradeterminato di lotte.
In un dialogo (precedente al referendum) tra Stathis Kouvelakis e Alain Badiou i due concordavano nel leggere l’esperienza greca come un nuovo e contraddittorio terreno di sperimentazione del rapporto tra “partito”, “movimenti” (con le loro esperienze di organizzazione) e “Stato”. Su un piano più limitato l’esito del tentativo di Syriza viene letto come segno dell’impossibilità di una politica progressista e redistributiva all’interno della UE, ma anche di una forma di “keynesismo” limitata ad un solo paese. Come pensi sia possibile avanzare oggi una proposta politica di rottura con la UE, credibile a livello di massa e che non sia fin dall’inizio neutralizzata da queste contraddizioni, trasversali sia alle ipotesi di governo che alle esperienze di mobilitazione sociale?
La Grecia è stata un banco di prova per molte posizioni che riguardano la questione del potere politico. È ovvio che l’esperiezna greca ha dimostrato che non è possibile avere una qualche forma di governo progressista, di giustizia sociale e di redistribuzione all'interno dell'UE. L'architettura monetaria e istituzionale dell'UE ed in particolare della zona euro, i molti modi in cui questo sistema è interiorizzato negli stati membri, il fatto che essa è la condensazione materiale di un rapporto di forza tra le classi a favore del capitale, tutti questi elementi rendono semplicemente impossibile “governare”, nel quadro istituzionale esistente. Anche se si potesse pensare ad un governo in grado di attuare forme di rottura con l'Eurozona, il funzionamento dello Stato e degli apparati ideologici potrebbe ancora essere un problema, proprio per la strategia di classe condensata nella materialità dello Stato. In questo senso, quello che ci serve è una nuova concezione di strategia duale del potere. Non nel senso di un confronto “finale” tra due forme di stato opposte, ma più nel senso della costante e contraddittoria coesistenza tra il tentativo di muoversi verso un governo di sinistra radicale (sulla base anche di un “processo costituente” che aprirebbe lo spazio a nuove ed estese pratiche democratiche), e il tentativo di creare forme estensive di contro-potere, di autogestione e di solidarietà. Potere duale si riferisce alle nuove forme di potere popolare, all'autogestione, al controllo dei lavoratori, alla solidarietà e al coordinamento che stanno resistendo ai contrattacchi degli apparati statali e del capitale, anche dopo l'arrivo della sinistra al governo. Una guerra di posizione è necessaria, sia prima che dopo la presa del potere, come processo continuo di lotte, sperimentazione collettiva, forme di potere dal basso, nuove configurazioni sociali, insieme a cambiamenti istituzionali profondi, sotto forma di un processo costituente. In questo senso la concezione del potere duale non riguarda solo i consigli operai o i soviet. Si tratta anche di imprese autogestite, ospedali di solidarietà e assemblee popolari. Si tratta di guardare con attenzione alle nuove forme di organizzazione che sono emerse nei movimenti come 15M, o le "Piazze" come forme politiche collettive, che per certi aspetti trascendono la divisione politica/sociale. In una tale prospettiva non c’è un momento di passaggio dal “governo radicale” alla “trasformazione socialista”, ma solo un processo irregolare e contraddittorio che si troverà ad affrontare i contrattacchi. Forse quello che Georges Labica ha definito come l' “impossibilità della non-violenza”.
Tra le varie proposte di rottura con le politiche neoliberali europee alcune puntano a disarticolare i concetti di “Unione Europea”, “Unione economica e monetaria”, “Mercato unico”. Lafontaine, ad esempio, propone una sorta di ritorno al Sistema Monetario Europeo e, almeno in parte, questa proposta ha trovato riscontro in Stefano Fassina, Yannis Varoufakis e Jean-Luc Mélenchon. Altra ipotesi è quella di un’uscita coordinata dei paesi dell’area mediterranea. Ritieni plausibile questo tipo di soluzioni? Come pensi sia possibile coordinare l’esigenza di tracciare possibili nuovi orizzonti europei con la non sincronicità dei percorsi e dei tempi politici nei diversi paesi?
È positivo che finalmente il dibattito sull'Europa si apra nella sinistra europea. Ogni rottura con l'europeismo compulsivo, che è stata la vulgata dell'euro-sinistra, è più che benvenuta. Tuttavia, è evidente che non vi è alcuna ragione di pensare ancora in termini di rifondazione democratica del progetto europeo. Ciò che è necessario è una rottura con questo stesso progetto. In questo senso, non si tratta di scegliere tra il piano A e il piano B, poiché non vi è che un solo piano, solo un punto di partenza necessario, vale a dire l'uscita immediata dalla zona euro, la disobbedienza ai trattati UE e, di conseguenza, l’uscita dalla stessa UE. Qualsiasi discussione di politica progressista inizia dopo questo punto. Tuttavia, è solo un punto di partenza. Non è sufficiente pensare solo ad un governo progressista che interrompa i pagamenti del debito, proceda all’uscita dalla zona euro e metta in atto un incisivo aumento alla spesa pubblica. Anche se è indispensabile ripristinare una condizione macroeconomica keynesiana di sinistra (sotto forma di recupero di sovranità monetaria e aumento della spesa pubblica), tuttavia ciò non è sufficiente. Dobbiamo pensare alla “ricostruzione produttiva” non come “ritorno alla crescita”, ma come un processo di trasformazione e di intenso confronto con il capitale, sulla base della proprietà pubblica, dell'autogestione, e di forme di controllo dei lavoratori. Deve essere un processo di sperimentazione e apprendimento. Forme contemporanee di solidarietà, di autogestione, di reti non commerciali alternative di distribuzione, di libero accesso ai servizi, così come le discussioni su come utilizzare il settore pubblico e come rendere fruibili i servizi pubblici non sono solo modi per affrontare problemi sociali urgenti. Essi sono anche laboratori sperimentali per forme alternative di produzione e di organizzazione sociale, sulla base delle “tracce di comunismo”, di inventiva collettiva e ingegnosità delle resistenze contemporanee, insieme a gesti quotidiani di solidarietà – qualcosa esemplificato nella miriade di atti di solidarietà in Grecia durante la crisi dei rifugiati.
Più recentemente hai preso posizione per denunciare le politiche di respingimento dei migranti e di assimilazione di “quote” di rifugiati da parte dell’Unione Europea, contrapponendo alla richiesta subalterna di sussidi del governo Syriza-Anel una denuncia radicale della “fortezza Europa”. Ora, la questione dei rifugiati è stata anche uno dei terreni su cui si è giocata una nuova “narrazione” europeista che, almeno in parte, ha offuscato il quadro uscito dalla crisi e che sembrava averne rivelato il carattere neoliberale e ademocratico (basti pensare all’immagine dei profughi siriani che marciano e attraversano frontiere sotto il vessillo della UE). D’altra parte, alcune componenti sociali (in particolare settori dei ceti medi impoveriti) e forze politiche (in certi casi non immediatamente qualificabili come “di destra”) che nel tempo hanno maturato posizioni di rottura con l’euro e con la UE sono anche quelle più diffidenti verso politiche di accoglienza dei migranti. Tutto questo, lo si voglia o no, sembra avere ristretto ulteriormente lo spazio politico per una posizione di rottura da sinistra con l’Unione. Pensi sia possibile e, se sì, con quali strumenti teorici e pratici, sfuggire a questa morsa?
Prima di tutto dobbiamo sottolineare la responsabilità dell'Unione europea e delle forze imperialiste in generale, sia per quanto riguarda la guerra e la povertà in Medio Oriente e in Nord Africa che creano queste ondate di rifugiati e migranti, sia per l'imposizione di politiche omicide della Fortezza Europa. Per di più, la solidarietà oggi è anche una sfida pratica attiva alla logica neoliberista dominante. Di conseguenza non dobbiamo pensare che la migrazione di massa sia un “piano” o uno “schema” delle borghesie europee. Non lo è. La migrazione è un risultato della guerra e della povertà. I capitalisti cercano sempre di approfittare delle divisioni all'interno delle classi subalterne ed è per questo che i rifugiati e i migranti sono tenuti in una condizione di precarietà e mancanza di diritti fondamentali. La nostra risposta deve essere di unione popolare. Dobbiamo cercare di integrare i migranti nelle nostre lotte comuni e allo stesso tempo lottare per i loro diritti. Questo può aiutare l'emergere di nuove forme di identità popolare comune, basate sulla lotta e la solidarietà. Dobbiamo anche osare e dire che i migranti sono più del nostro segmento di capitale internazionalizzato, sono parte della 'nazione', dato che lavorano e lottano qui. Di conseguenza, ciò che è necessario è un duro lavoro nel movimento di solidarietà, di lotta per i diritti sociali e politici, aprendo i sindacati e le altre strutture di movimento agli immigrati, aprire l’organizzazione politica, rifiutare l’islamofobia. Occorre uno sforzo collettivo per ridefinire l'identità popolare in un modo più inclusivo. Questo è un aspetto integrante di qualsiasi tentativo verso una politica egemonica di un nuovo blocco storico.
Un’ultima questione riguarda l’imperialismo. Ritieni che l’UE sia una forza imperialistica in via di autonomizzazione oppure un blocco ancora in larga parte subalterno alla NATO? Come Ross@ abbiamo provato a porci il problema se non sia possibile parlare di una sorta di “imperialismo multilivello”, che preveda una frammentazione e uno scontro all’interno del blocco dominante: una situazione in cui il gioco egemonico è frastagliato e potenzialmente contraddittorio, prevedendo, parallelamente all’innesto “Unione Europea-NATO” su una serie di questioni strategiche, anche fenomeni di rinazionalizzazione e logiche di potenza completamente nuove e su diversa scala. Il rischio, di cui siamo consapevoli, è però quello di oscillare tra una semplice descrizione del quadro esistente ed un’assolutizzazione di “tendenze” che sottostimano i rapporti di forza reali. Credi sia utile concettualmente usare la categoria di imperialismo per parlare dell’Unione Europea e, se sì, in quale modo è possibile attualizzarla e renderla spendibile politicamente?
La nozione marxista di imperialismo va oltre la semplice nozione geopolitica di espansione. Si riferisce al modo in cui il piano internazionale è definito dalle strategie di classe e alla tendenza verso l'internazionalizzazione del capitale. La metafora di Lenin della catena imperialista è ancora attuale perché può spiegare le forme complesse e contraddittorie di gerarchia, di antagonismo, di confronto, ma anche la cooperazione e la formazione di blocchi nel sistema internazionale. Siamo entrati in una fase di aumento delle contraddizioni e conflitti nella catena imperialista, in conseguenza delle nuove dinamiche dell'economia globale e delle battute d'arresto del nuovo interventismo militare americano (di per sé un tentativo di mantenere l'egemonia americana) e delle nuove sfide per l'Egemonia americana che provengono dalla nascita di altri poli come la Cina (nella sua cooperazione in termini geopolitici con la Russia). Sia la Siria che l'Ucraina rendono evidente che in un certo modo siamo già all'interno di una guerra globale 'per procura'. Allo stesso tempo, l'Europa è parte di questo complesso insieme di relazioni. Da una parte l'aspetto dominante è la strategia euro-atlantista, ossia l'inserimento della UE nella strategia dominante degli Stati Uniti. In questo senso, in un ruolo non-egemonico, l'UE è parte integrante del blocco imperialista contemporaneo. L'Europa non è, cioè, autonoma dalla strategia imperialista dominante e ogni volta che prende iniziative – dal ruolo distruttivo nello smantellamento della Jugoslavia al ruolo in Libia – esse incarnano versioni aggressive della strategia imperialista. Tuttavia, vi è anche l'aspetto di antagonismo economico (e a un grado minore anche politico) con gli Stati Uniti, esemplificato nelle varie forme di guerre commerciali. Di fronte a questa situazione abbiamo bisogno di un nuovo anti-imperialismo, abbiamo bisogno di porre enfasi sulla necessità di sganciare un paese dalle pratiche economiche, politiche, sociali e ideologiche dell'imperialismo contemporaneo. Ma questo non ha nulla a che fare con le illusioni di un'Europa 'progressiva' contro gli Stati Uniti. Un nuovo antimperialismo, un movimento per la pace, significa un movimento per la rottura con l'imperialismo, per l'uscita dalla NATO, per l'uscita da tutte le strutture di sicurezza collettive e di intervento militare euro-atlantiste.
Note:
[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 1975, Q. 8 (XXVIII), § (21), p. 953.
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