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24/01/2016

Saud, la dinastia al tramonto che non molla

Secondo certi sudditi, che twittano ovviamente celati dietro account di fantasia, i Saud sarebbero una dinastia sul viale del tramonto. Altri sostengono che quella famiglia, alla guida del Paese da ottant’anni, sia “il meglio del peggio”, altri ancora assicurano che per nessuna ragione abdicherà. Ai cittadini sauditi re Salman chiede “ascolto e obbedienza”, chi non lo fa rischia. Non una coercizione ordinaria basata sulla “semplice” galera. Da quelle parti i giudici wahhabiti applicano la Shari’a coi crismi più violenti possibili e le teste volano sotto la spada di Allah. Nelle scorse settimane la punizione divina per mano umanissima dei boia di regime, fra i 44 condannati a morte ha colpito anche una personalità di rilievo del mondo sciita come Nimr al-Nimr. Ha mescolato pruriti securitari diretti alla maggior parte dei condannati qaedisti, a manovre geopolitiche lanciate contro il nemico regionale di sempre: l’Iran. Così la dinastia che ripristinò la linea monarchica saudita in età contemporanea con Abdulaziz, negli anni Venti e Trenta e Saud nei Cinquanta; che ha conosciuto intrighi interni con l’assassinio di Faysal (1975) per mano d’un cugino, morti improvvise (Khalid nel 1982) per malattie cardiocircolatorie, disabilità sopravvenute (Fahd) sempre per infarti, e ha assistito alla nascita del jihadismo nutrito dai princìpi wahhbiti tanto cari alla stessa corona, cerca nella spada e nella verga gli strumenti per il mantenimento del potere.

Fra il “riformatore conservatore” re Abdallah – negli ultimi tempi della sua conduzione impegnato a promuovere studi all’estero (principalmente negli Usa) dei giovani rampolli del Paese e attuare programmi sanitari volti a limitare l’incidenza di tumori femminili – e la prassi intrapresa dal successore Salman i Saud hanno subìto metamorfosi contraddittorie. La nazione continua a far leva sulla forza di ‘Stato redditiero’, ricchissimo negli investimenti interni con la crescita esponenziale di tutto ciò che fa immagine: bei palazzi, banche, ristori e negozi di merce griffata (ma non cinema e luoghi di fruizione artistica) al centro di Riyad e anche nelle nuove periferie come Atturaif. Gli investimenti di colonizzazione sono rivolti anche all’estero, il Libano ne è un antico esempio. I sauditi accrescono le velleità di supremazia regionale, sia attraverso investimenti di colonizzazione, sia con l’uso della forza: il Bahrein nel 2011 e lo Yemen d’oggigiorno. Secondo le posizioni del ministro della Difesa, che poi è il figliolo del sovrano, le iniziative militari in corso sono nient’altro che una tutela da quelle componenti etniche (Houthi) presenti nella penisola arabica, a suo dire, destabilizzatrici dai primordi del regno saudita. Il trentenne Bin Salman è il futuro della dinastia, ma non è detto che sarà un futuro lontanissimo.

Per ora l’ottantenne Salman ha designato come successore il nipote Bin Nayaf. Cinquantasei anni, ponderato, ma deciso perciò in linea con la tradizione che vuol dire spietato quando occorre. E’ diventato celebre, durante il regno di Abdallah, per aver condotto una lotta senza quartiere ai seguaci interni di Bin Laden, presenti ben oltre il suo abbandono della penisola. Anche tramite la spinta di Bin Nayaf la Cooperazione del Golfo ha fatto quadrato a difesa del ruolo di magnati del petrolio che garantivano la sicurezza propria e degli alleati occidentali. Così contenti tutti, a Riyad, Abu Dhabi, Kuwait City, Washington, Londra. Quando Salman, l’anno passato, scelse Bin Nayaf per la successione si disse che lo faceva perché questi non avendo discendenti e avrebbe comunque passato lo scettro a Bin Salman. Non è detto, però, che l’attuale Saud in trono, sanguigno e sanguinario, non tiri fuori dalla kefiah un ripensamento a favore dell’amato erede diretto. Potrebbe farlo, può farlo anche per l’appoggio che trova nei settori più chiusi degli emiri-capitalisti e nel clero wahhabita. Le condanne a morte, sensibilmente aumentate nell’ultimo anno, rispondono anche al piano di tenere buoni i chierici reazionari, gli spazi d’azione più ampi concessi alla polizia religiosa (Mutawwi’a), che interviene per via, redarguisce e punisce, come nei territori del Daesh.

Tale mossa ha la duplice finalità di accattivarsi i consensi di quel clero e di misurarsi sul terreno teologico-comportamentale cavalcato da al Baghdadi e rintuzzarne la concorrenza. Certo i due Bin, diversi generazionalmente da king Salman, fiutano le esigenze della gente, del mercato, della macro politica. Entrambi pensano che occorre anche essere recettivi ai cambiamenti, praticare la flessibilità come forma tattica per poter elaborare strategie vincenti in situazioni diventate estremamente complesse. Di tale complessità i sauditi sono fra gli artefici, nell’incentivare il caos mediorientale, aiutando il jihadismo fondamentalista sunnita, oppure subiscono gli effetti dell’eterno conflitto petrolifero. Questo negli ultimi tempi aveva visto all’attacco i nuovi padroni occidentali dei giacimenti petroliferi (e di gas) scovati sotto le rocce, a cui Riyad ha risposto con l’aumento della produzione. Prezzi al barile crollati (ma non alla pompa i petrolieri globali, Sette Sorelle e dintorni, risultano più speculatori degli emiri). Se questo conflitto peserà anche sulle spalle della casa regnante è una delle incognite dell’oggi e del domani, giocato principalmente sulla pelle di quelle comunità etniche diseredate in viaggio sulle rotte della migrazione forzata, che ormai non hanno né Dio né Patria, né Re né Repubbliche. Islamiche o laiche.

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