Impossibile non occuparsi di petrolio, in questi giorni. Il crollo del prezzo ha infatti un effetto economico altrettanto grande della sua salita, ma di tutt'altro genere. Quando sale, infatti, l'economia reale tende a rallentare, perché l'energia più cara fa rivedere sia le scelte di investimento che quelle dei consumatori. Quando scende, invece, se l'economia reale è gravemente malata – come in questi ultimi otto anni – provoca deflazione, non corsa a consumare. E a pagarne le conseguenze per prime sono le società quotate in borsa, che vedono fuggire i capitali finanziari verso lidi più tranquilli.
I giornali sono pieni di titoli ad effetto, ma non sono molte le analisi che tengano insieme notizie e dati differenti, ma convergenti nello stesso problema.
Intanto le notizie. A deprimere ulteriormente il prezzo è arrivata l'indiscrezione sui tempi di consegna del rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sul rispetto dell'Iran dell'accordo sul nucleare stretto un anno fa con i principali paesi dell'Occidente. E' arrivato oggi, quattro mesi prima del previsto, e quasi immediatamente cadranno le sanzioni ultradecennali nei confronti di Tehran. Ciò significa che le molte maxipetroliere nei porti iraniani potranno salpare addirittura in settimana per esportare greggio verso clienti vecchi e nuovi, soprattutto europei.
Un incremento immediato dell'offerta in un periodo di domanda ferma, se non addirittura in calo. Conseguenza immediata: prezzi in discesa ancora per mesi, senza un “limite” certo che possa costituire – per i produttori – un riferimento sicuro.
Ma questa bonanza di greggio a buon mercato può davvero durare a lungo?
Qui converrà dar retta agli esperti dell'estrazione petrolifera, anziché agli analisti finanziari abituati a “proiettare linearmente” nel tempo tendenze destinate a durare assai meno dell'ipotizzato.
Cosa sta avvenendo, in pratica? Tutti i produttori stanno pompando a più non posso, contemporaneamente. Significa che tutti stanno utilizzando al massimo la capacità estrattiva già installata, su pozzi già aperti da tempo. Questo vale tanto per chi estrae petrolio “facile” (come Arabia Saudita o Iraq e Kuwait), quanto per chi sta sfruttando risorse molto più difficili da raggiungere, per cui sono stati fatti investimenti molto più costosi (shale oil, acque profonde, giacimenti artici, ecc.).
Inevitabilmente si creano due problemi convergenti:
a) chi estrae ad un costo inferiore al prezzo di vendita, guadagna; chi lo fa a un costo superiore, perde. Se il prezzo non risale in tempo, i secondi falliscono, o comunque si riducono molto di numero. E così anche la produzione, quindi l'offerta finale sul mercato.
b) La quasi totalità dei nuovi progetti estrattivi, per lo più di grande impegno finanziario perché le risorse ancora vergini sono tutte in giacimenti difficilissimi da raggiungere (in acque ancora più profonde, ecc.), tendono ad essere rinviati a tempi migliori.
Come spiega Sissi Bellomo su IlSole24Ore, “Da giugno a oggi la lista si è allungata a 68 progetti [rinviati, ndr], che avrebbero dovuto sviluppare riserve per 27 miliardi di barili equivalenti di petrolio, mentre l’importo dei tagli è quasi raddoppiato: da 200 a ben 380 miliardi di dollari, di cui 170 miliardi che avrebbero dovuto essere investiti a breve, nei prossimi cinque anni. Non succederà. E il risultato, in termini di produzione, sarà drammatico: 1,5 mbg in meno di qui al 2021, che saliranno a 2,9 mbg entro il 2025. Barili quasi certamente necessari, per soddisfare la crescita della domanda e il declino dei vecchi giacimenti, e la cui mancanza potrebbe riaccendere i prezzi del petrolio.[...] In media gli investimenti rinviati potevano arrivare a “breakeven” con il petrolio a 62 dollari al barile”.
Un lungo periodo di prezzo basso, insomma, non preannuncia affatto un infinito periodo di cheap oil, ma un drammatico rimbalzo dei prezzi, man mano che i vecchi giacimenti si esauriranno e i nuovi non sono ancora pronti a partire. Sempre che eventi geopolitici lo permettano (Arabia Saudita e Iran faranno calare la tensione reciproca? E l'Iraq troverà una stabilità interna tale da consentire una produzione regolare maggiore? Boko Haram espanderà o no le sue operazioni in Nigeria fino a minacciare l'area del delta del Niger, dove ci sono gli impianti petroliferi?).
Questi mesi sembrano insomma destinati a segnare l'ultima fase di “orso” per il mercato petrolifero, anche se magari il prezzo scenderà ancora, fino ai 20 dollari al barile, magari anche meno.
Sono previsioni da Cassandra? Non crediamo. Bhp Billiton – multinazionale mineraria australiana – impegnata fortemente nello shale oil in Canada e Stati Uniti, ha svalutato per 7,2 miliardi di dollari i suoi asset nello shale americano. Una decisione dolorosissima, che indica come i nodi stiano veramente arrivando al pettine.
Società molto meno grandi, e con molte meno riserve finanziarie, oltre che con interessi assai meno diversificati, stanno per chiudere baracca.
Ultimo dato. Goldman Sachs, tra i primi a prefigurare il rischio di caduta del petrolio a 20 dollari, adesso dice che di aspettarsi un “bull market” a fine anno: i prezzi sono scesi abbastanza da indurre ad «aggiustamenti dei fondamentali in grado di ribilanciare il mercato». E i fondamentali del petrolio sono sempre fisici, non finanziari.
Cosa avverrà a quel punto in un'economia globale che non è riuscita a ripartire neanche in seguito ad anni di quantitative easing e un paio di anni di petrolio facile? Non è difficile da immaginare, no?
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