di Michele Giorgio – Il Manifesto
Dopo aver promosso
e ottenuto nei giorni scorsi la clamorosa riconciliazione tra due
nemici irriducibili come i leader cristiani-libanesi Samir Geagea e
Michel Aoun, adesso il Qatar punta ad un’altra missione impossibile
degna di Tom Cruise. Ai primi di febbraio si vedranno a Doha i
rappresentati di Fatah, il movimento guidato dal presidente palestinese
Abu Mazen, e quelli del movimento islamico Hamas, per negoziare
le condizioni della riconciliazione tra le due più importanti
formazioni politiche palestinesi e mettere fine alla separazione tra la
Cisgiordania e la Striscia di Gaza avvenuta nove anni fa.
A guidare la delegazione di Fatah sarà Azzam al Ahmad mentre quella
di Hamas potrebbe essere capeggiata dallo stesso leader in esilio del
movimento, Khaled Maashal, che già si trova in Qatar. L’incontro,
organizzato su basi incerte, non lascia intravedere grandi possibilità
di successo. Le due parti con riluttanza hanno accettato l’invito dei
regnanti Qatarioti. I passati nove anni sono stati segnati da
colloqui spesso conclusi con accordi e scritti dalle due parti come
definitivi, poi le cose sono andate nella direzione opposta. L’ultima
volta risale all’inizio dell’estate del 2014, con l’accordo Fatah-Hamas
seguito al fallimento dei nove mesi di negoziati tra Israele e l’Anp
mediati dal segretario di stato Usa John Kerry.
In quella occasione le due parti formarono un esecutivo di «consenso
nazionale» che di fatto non ha mai avuto modo di governare anche a Gaza.
Troppo diversi sono gli obiettivi di Fatah, o almeno dei suoi
vertici, e quelli di Hamas. Le strade che percorrono restano diverse,
nonostante gli appelli all’unità che giungono da più parti.
Fatah attraverso i servizi di sicurezza dell’Anp – che cooperano
stabilmente con quelli israeliani nonostante la contrarietà della
popolazione palestinese – continua ad usare il pugno di ferro con
militanti e simpatizzanti di Hamas in Cisgiordania. Da parte sua il
movimento islamico non ha esitato a mettere agli arresti domiciliari,
anche per lunghi periodi, numerosi esponenti di Fatah.
Si deve tener conto che in questa fase Abu Mazen ha altro per la
testa. Da un lato deve fare i conti con la linea aggressiva del governo
Netanyahu che accusa i media vicini all’Anp di «istigare alla violenza» e
l’ottantenne presidente palestinese di non muovere passi concreti per
far cessare l’Intifada dei giovani, cominciata ad ottobre e che si sta
allargando in Cisgiordania.
Dall’altro deve affrontare la lotta per la successione che
comincia ad occupare la scena ai vertici dell’Anp e dell’Olp. Alcuni dei
pretendenti alla futura leadership, come gli ex capi dei servizi di
sicurezza Tawfiq Tirawi e Jibril Rajoub, non esitano ad attaccare
pubblicamente Abu Mazen e, dicono, non lascia sfogare liberamente
l’Intifada. Altri si propongono agli americani e ai leader
occidentali e israeliani come i futuri garanti della stabilità nei
Territori palestinesi occupati e non esitano a sferrare colpi bassi ai
rivali.
Ne è dimostrazione il caso del recente arresto di una spia di
Israele nell’ufficio di Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi,
da poco nominato segretario generale dell’Olp e considerato uno dei
principali candidati alla presidenza. La spia, Abdel Nasser
Milhem, originario di Tulkarem, è stato descritto dai servizi
palestinesi come un informatore degli israeliani da oltre venti anni e,
di conseguenza, potrebbe aver passato documenti ed informazioni
riservate su aspetti molto delicati del negoziato. Tuttavia non pochi
ridimensionano l’importanza di Milhem, descritto a volte come il
direttore dell’ufficio di Erekat, altre come un semplice impiegato.
La vicenda, sussurra qualcuno potrebbe essere stata ingigantita
dall’intelligence per affossare le ambizioni di Erekat, già al centro di
alcune polemiche cinque anni fa, quando alla tv al Jazeera e al britannico Guardian, arrivarono
i cosiddetti «Palestinian papers» su importanti concessioni fatte dal
capo dei negoziatori durante passate trattative con Israele.
Proprio nei giorni scorsi il capo dell’intelligence Majd Farraj, subito
dopo l’arresto della spia, ha concesso un’intervista alla statunitense Defence News (vicina al Pentagono) in cui ha rivelato che i
servizi dell’Anp hanno sventato decine e decine di attacchi contro
Israele negli ultimi mesi e che restano «l’unica barriera contro la
penetrazione dell’Isis in Cisgiordania».
L’analista Ghassan al Khatib è convinto che «sino a quando Abu Mazen
sarà presidente la situazione ai vertici dell’Anp rimarrà sotto
controllo», ma, aggiunge «dovesse il presidente, per qualsiasi ragione,
uscire di scena, la lotta tra i pretendenti si farà dura, senza esclusione
di colpi, con il rischio di far precipitare l’Anp nel caos».
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