di Chiara Cruciati – il Manifesto
I “bambini-Frankestein”
di Bassora ora nascono a Fallujah: il destino dell’Iraq violentato da
decenni di guerra globale sta nei corpi deformati dei neonati della
seconda città della provincia di Anbar. Sono trascorsi 13 anni dall’invasione Usa dell’Iraq:
tra le comunità in prima fila contro l’occupazione Usa, Fallujah ne
paga ancora le violenze fisiche e politiche. A raccontare la storia dei bambini di Fallujah è un reportage di Middle East Monitor: uranio impoverito e fosforo bianco (il cui uso fu ammesso da Washington nel novembre 2005), inquinando aria e terreni, producono ancora i loro macabri effetti. Il tasso di neonati con deformazioni e tumori è tanto alto – scrive l’agenzia – da superare quello di Hiroshima e Nagasaki.
Ma le conseguenze della “guerra al terrore” non si fermano ai corpi straziati dei bambini. Vanno oltre, fino a sfociare nell’occupazione
Isis, che qui si è fatto strada sostenuto da ex ufficiali del partito
Baath: i residenti ancora presenti, dei 300mila originari, sono
schiacciati dalla brutalità del “califfato”. Esecuzioni in
pubblico, punizioni corporali, scuole aperte per poche ore, bambini
rapiti e reclutati come soldati, tagli dei servizi base. Eppure Fallujah
resta in stand by. Dopo la ripresa di Ramadi, capoluogo di
Anbar, Baghdad aveva promesso un intervento immediato: con il sostegno
delle unità tribali sunnite, i primi passi erano stati compiuti per poi
interrompersi. Ad oggi la controffensiva è ancora sulla carta,
seppure lo Stato Islamico la usi per stringere la morsa su Fallujah:
trincee, tunnel, ordigni nei quartieri residenziali. Ma soprattutto
propaganda per spaventare una comunità, quella sunnita, che teme l’Isis
quanto le rappresaglie delle milizie sciite. Gli abusi di Tikrit li
conoscono tutti, a menadito.
Turchia e Usa tra Siria e Iraq
E se Fallujah aspetta di conoscere il proprio destino, le potenze si muovono sulle macerie del governo iracheno. Epicentro degli interessi resta la base militare di Bashiqa: a 20 km da Mosul, usata dai peshmerga per spingere indietro la linea del fronte dell’Isis, da dicembre è oggetto delle attenzioni della Turchia
che, bypassando Baghdad, ha inviato un suo contingente. Ufficialmente
per addestrare i combattenti kurdi, ufficiosamente per mettere il
cappello sulla controffensiva a Mosul.
Le proteste irachene sono rimaste inascoltate e oggi, nonostante deboli rimbrotti da parte Usa,
Washington e Ankara si sarebbero accordati. Secondo fonti Usa,
nell’incontro di sabato il vice presidente Biden e il presidente Erdogan
avrebbero gettato le basi per «nuove iniziative comuni» su Bashiqa,
un coordinamento militare tra Ankara e Nato che farebbe da contraltare
all’operazione paventata in Siria dallo stesso Biden. Sabato il vice
presidente ha riportato dell’intenzione di intervenire militarmente con
la Turchia nel caso di fallimento del negoziato siriano.
Un negoziato che affonda: il dialogo avrebbe dovuto aprirsi
ieri a Ginevra ma il boicottaggio delle opposizioni ne ha impedito
l’avvio, con il segretario di Stato Usa Kerry costretto ad arrampicarsi
sugli specchi e a promettere di «chiarire» la questione entro 24-48 ore. Forse la chiarezza che cerca gli arriverà dalle opposizioni siriane e dall’incontro di emergenza deciso per oggi
a Riyadh: il comitato nato dal meeting in Arabia Saudita di dicembre
sarà chiamato a decidere se partecipare o meno al negoziato di Ginevra.
I gruppi anti-Assad stanno apertamente bloccando il processo politico:
con il governo di Damasco pronto a cominciare, le opposizioni accusano
Kerry di pressioni, la Russia di interferenza, così da prendere tempo a
favore degli alleati regionali, Turchia e Golfo, con in mano meno potere
contrattuale del passato. Ieri l’inviato Onu per la Siria de
Mistura ha provato a mettere punti fermi: oggi partiranno gli inviti, il
tavolo si aprirà il prossimo venerdì, 29 gennaio.
Ue ai piedi di Erdogan
E mentre le prospettive di un dialogo reale si affievoliscono, al
centro dei giochi resta proprio la Turchia che tenta di risalire la
china sfruttando le spinte belliche Usa e facendosi scudo con i
rifugiati. Ankara sa di poter contare su Bruxelles perché
potente è la minaccia rappresentata per la fortezza Europa
dall’emergenza rifugiati. Ieri lady Pesc Mogherini è volata ad Ankara
per rassicurare l’alleato: i 3 miliardi promessi a novembre
(ufficialmente per progetti a favore di profughi, ma in realtà volti a
bloccarne il flusso verso i territori europei) arriveranno «in un
ragionevole lasso di tempo».
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