Le opposizioni siriane, riunite sotto l’ombrello dell’Alto Comitato per i
Negoziati (HNC), non hanno ancora risposto alle Nazioni Unite. Ieri a
Riyadh avrebbero dovuto decidere se volare o meno a Ginevra dove venerdì
dovrebbe aprirsi il negoziato siriano, dopo il rinvio di lunedì. Ma non
ha comunicato nulla, la decisione – dicono dall’Arabia Saudita – sarà
resa nota oggi. Non mancano voci pessimiste tra i partecipanti al
vertice: non ci sarebbe consenso perché una parte dei gruppi
anti-Assad vogliono prima il rispetto delle precondizioni poste, ovvero
lo stop dei raid russi, la fine degli assedi nelle città controllate dai
ribelli e la liberazione dei prigionieri politici.
Nella serata di ieri il portavoce dell’HNC, Salim al-Muslat, ha sciolto
un po’ di dubbi parlando di “visione positiva del negoziato” da parte
delle opposizioni: “Ci sono alcune domande, una lettera è stata inviata
al segretario generale Ban Ki-moon e all’inviato per la Siria de
Mistura. Non poniamo ostacoli di fronte alla soluzione politica, ma
vogliamo alcune spiegazioni: ad esempio cos’è un governo ad interim”.
Un percorso che resta quantomeno accidentato e che non fa ben sperare i promotori del dialogo, Onu, Usa e Russia.
Dopo l’accordo trovato a Vienna a novembre dalla comunità
internazionale e dopo la risoluzione delle Nazioni Unite di dicembre che
suggellava il processo negoziale come soluzione alla crisi, il
mondo si è accorto che non poteva fare i conti senza l’oste. Ovvero con
chi poi è chiamato a negoziare: le opposizioni siriane.
Se il governo di Damasco si è da tempo detto pronto al dialogo, le opposizioni continuano a tirare la corda, sostenute dal Golfo a cui tanti rinvii non fanno che bene:
ad oggi il potere contrattuale dell’Arabia Saudita e in parte della
Turchia non è consistente quanto quello iraniano e russo, sia per le
vittorie registrate dal cosiddetto asse sciita sul terreno sia per il
comportamento diplomatico delle potenze regionali.
Ne è chiaro esempio il diktat lanciato ieri dalla Turchia: il premier
Davutoglu, in un incontro con i parlamentari dell’Akp, ha ribadito il
boicottaggio da parte di Ankara del negoziato di Ginevra se al tavolo
saranno presenti anche i kurdi siriani del Pyd, Partito dell’Unione
Democratica.
«Crediamo che debbano esserci kurdi, arabi, turkmeni,
sunniti, cristiani. Tuttavia siamo contrari a Ypg e Pyd». Perché sono
terroristi come il Pkk: questa è la visione che la Turchia intende
imporre ad un Occidente “confuso”: gli Stati Uniti hanno da
qualche mese preferito all’alleanza militare con i gruppi moderati
anti-Assad quella con le Unità di Difesa Popolare kurde, le Ypg, braccio
del Pyd. Eppure è lo stesso paese che ha definito pochi giorni fa il
Pkk “organizzazione terroristica”, fingendo di non vedere i legami
strettissimi, politici, ideologici e militari tra Rojava e Pkk.
È la realpolitik. Che potrebbe però produrre seri danni: ieri sera il
co-presidente del Pyd, Saleh Muslim, ha detto alla stampa di non aver
ancora ricevuto nessun invito dall’Onu per partecipare al negoziato di
Ginevra. Eppure ieri de Mistura lo aveva annunciato pubblicamente: tutti
gli inviti sono stati recapitati, l’Onu ha invitato 15 negoziatori e 12
esperti. I nomi non sono stati resi noti, si aspetta che le varie parti
invitate accettino.
Ha vinto Ankara e la sua brutale campagna contro il popolo
kurdo. Poco fa il ministro degli Esteri francese Fabius ha detto di
averne avuto la conferma dall’inviato per la Siria Staffan de Mistura: i
kurdi del Pyd sono stati esclusi da Ginevra per “non creare troppi
problemi”.
Una posizione quantomeno particolare: potrebbero
esserci i salafiti di Jaysh al-Islam, ora alleati dei moderati, ma non
chi ha strenuamente combattutto l’Isis sul terreno.
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