di Michele Paris
La classe
dirigente del pianeta si appresta da mercoledì a partecipare al consueto
Forum Economico Mondiale di Davos in un clima internazionale mai così
cupo e minaccioso dalla presunta fine della crisi globale del 2008. Ad
anticipare l’arrivo delle élite politiche ed economiche nell’esclusiva
località alpina svizzera è stata come al solito la pubblicazione del
rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze,
giunte ormai a livelli più che insostenibili.
Secondo lo studio
della no-profit britannica, appena 62 individui, dei quali molti
presenti a Davos, nel 2015 sono giunti a detenere ricchezze pari a
quelle che è costretta a spartirsi metà della popolazione terrestre,
ovvero più di 3,5 miliardi di persone. Questo livello di ricchezza era
concentrato nelle mani di 338 persone soltanto cinque anni fa.
La
barzelletta dell’impegno dei potenti riuniti in Svizzera per mettere un
freno alle disparità economiche mondiali – ripetuta costantemente alla
vigilia del summit – è smascherata appunto dal fatto che la
polarizzazione delle ricchezze è aumentata in maniera rapida negli
ultimi anni. Ad esempio, la ricchezza a disposizione dei 62 uomini o
donne più ricchi del pianeta è salita del 44% dal 2010, mentre quella
nelle mani della metà più povera del pianeta è crollata del 41%.
Le
caratteristiche tutt’altro che inevitabili di questi processi sono
confermate, tra l’altro, da uno studio dell’università di Berkeley
citato da Oxfam, secondo il quale singoli e aziende custodiscono 7.600
miliardi di dollari in paradisi fiscali “offshore”. Anche ammettendo la
legittimità di queste ricchezze, la sottrazione di esse ai rispettivi
sistemi fiscali priva ogni anno i vari governi di qualcosa come 190
miliardi di dollari di entrate e, quindi, di risorse teoricamente
indirizzabili verso programmi sociali di vitale importanza.
Da
questo scenario, prodotto direttamente dalla crisi del capitalismo
globale, derivano una serie di questioni e di crisi che saranno con ogni
probabilità al centro degli incontri di Davos, al di là dell’argomento
ufficiale del vertice, ovvero la “Quarta Rivoluzione Industriale”.
Dagli
effetti del rallentamento della crescita dell’economia cinese alla
disoccupazione, dal crollo del prezzo delle risorse energetiche al
rischio esplosione di una nuova bolla finanziaria, dall’aumento delle
tensioni sociali al moltiplicarsi delle agitazioni dei lavoratori in
tutto il mondo, i motivi per tenere in apprensione i convenuti nel
“resort” elvetico sono molteplici.
I fattori che hanno permesso a
pochi individui di arricchirsi ed entrare oppure guadagnare posizioni
nel club dei miliardari a partire dal 2008 sono in definitiva gli stessi
che hanno determinato la mancata ripresa dell’economia reale o, per
meglio dire, che hanno gettato le fondamenta per l’esplosione di una
nuova crisi globale.
Ciò a cui si è assistito è stata piuttosto
una continua concentrazione delle ricchezze verso il vertice della
piramide sociale, oltretutto a un ritmo più sostenuto del previsto. La
stessa Oxfam dodici mesi fa si aspettava che l’1% della popolazione
mondiale giungesse a controllare ricchezze maggiori del rimanente 99%
solo nel 2016, mentre ciò è accaduto già nel corso dell’anno da poco
concluso.
Un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto,
quello che continua a essere registrato, che è inestricabilmente legato
alle politiche messe in atto dai governi di tutto il mondo, fatte di
austerity, smantellamento dei diritti dei lavoratori e implementazione
di misure da stato di polizia per il controllo e la repressione del
dissenso.
L’altra faccia della stessa medaglia che ha favorito
questa evoluzione è rappresentata dalle iniziative delle grandi aziende,
restie a investire ma impegnate a tagliare costi e personale,
progettare fusioni e acquisizioni, riacquistare proprie azioni ed
erogare dividendi agli azionisti. Il tutto con il sostegno delle
politiche delle banche centrali che hanno messo a disposizione o, nel
caso dell’Europa, continuano a mettere a disposizione quantità infinite
di denaro virtualmente senza alcun costo.
I
fatti di questi ultimi sette anni hanno aperto gli occhi a centinaia di
milioni di persone in tutto il mondo circa i meccanismi e le regole del
capitalismo internazionale e delle “democrazie” liberali. Per questa
ragione, le illusorie esortazioni di organizzazioni come Oxfam,
indirizzate ai leader politici e del business globale per adoperarsi a invertire la rotta in merito alle disuguaglianze, suonano del tutto
vuote, se non come una vera e propria beffa, dal momento che sono
precisamente questi ultimi i responsabili di quanto viene denunciato.
In
una dichiarazione che ha accompagnato il già citato rapporto, il
direttore esecutivo di Oxfam, Winnie Byanima, ha affermato assurdamente
che “le preoccupazioni dei leader mondiali per le crescenti
disuguaglianze non si sono per ora tradotte in azioni concrete”.
Tralasciando
qualsiasi considerazione sul grado di auto-illusione delle parole della
numero uno di Oxfam, azioni concrete in questo senso non sono giunte
proprio perché le “preoccupazioni” dei governi un po’ ovunque sono in
realtà diametralmente opposte. Iniziative più che efficaci sono state in
realtà messe in atto, ma per un obiettivo contrario, ovvero la
salvaguardia dei livelli di profitto degli strati più ricchi della
popolazione.
La ragione dell’esplosione delle disuguaglianze e
del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, secondo le
classi dirigenti di tutto il mondo, sarebbe da collegare principalmente,
come suggerisce lo stesso argomento scelto per il forum di Davos di
quest’anno, ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel nuovo secolo.
A
spiegare questa interpretazione artificiosa è stato settimana scorsa
anche il presidente americano Obama nel corso del suo ultimo discorso
sullo stato dell’Unione a Washington. Obama ha definito questi
cambiamenti come portatori di “opportunità” ma anche la causa
dell’aumento delle disuguaglianze.
Come se fossimo davanti a un
fenomeno impersonale e inarrestabile, il presidente USA ha poi ricordato
che le “aziende, in un’economia globalizzata, devono far fronte a una
concorrenza spietata e possono delocalizzare ovunque”, così che “i
lavoratori hanno meno potere” per far valere i propri diritti e
negoziare adeguamenti di stipendio. Le aziende, allora, “sono meno
vincolate alle comunità” in cui operano e, in definitiva, l’intero
processo fa sì che “sempre maggiore ricchezza e redditi siano
concentrati verso l’alto”.
Ben
lontana dall’essere una dinamica di questo genere, la concentrazione
delle ricchezze nelle mani di pochi e l’impoverimento di massa di
centinaia di milioni (se non miliardi) di persone è la conseguenza di
politiche deliberate e del funzionamento di un sistema economico in
stato di avanzato deterioramento, in grado soltanto di produrre
devastazione sociale, crisi internazionali e conflitti rovinosi.
Di
fronte a problematiche di questa portata, la funzione di summit come
quello al via da mercoledì a Davos sembra essere dunque quella di
consentire ai governi e ai miliardari che li controllano di preparare
risposte – improntate rigorosamente a politiche di classe – alla nuova
imminente crisi del sistema, in modo da farla gravare ancora una volta
sulle spalle di coloro che ne hanno pagato il prezzo più caro in questi
ultimi durissimi anni.
Fonte
Altro che la Libia, è Davos che andrebbe bombardata.
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