di Michele Paris
Il nuovo round dei colloqui di pace sulla Siria previsti a partire da
lunedì a Ginevra è stato rinviato almeno di qualche giorno in seguito
al persistere dei differenti punti di vista tra le varie potenze
coinvolte attorno a una serie di questioni preliminari. In primo luogo,
le divergenze sono emerse a proposito delle forze e dei gruppi di
opposizione al regime di Assad che dovrebbero essere invitati al tavolo
dei negoziati.
Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Turchia e i
loro alleati nel conflitto siriano ritengono che l’unica formazione
“ribelle” accreditata nelle trattative con Damasco dovrà essere la
commissione formata all’indomani di un incontro non privo di tensioni
patrocinato da Riyadh alcune settimane fa. Di questo organo fanno parte
però varie organizzazioni armate che, legittimamente, la Russia
considera di natura terroristica e, di conseguenza, dovrebbero essere escluse dalle trattative di pace.
In cima alla lista dei gruppi
sgraditi a Mosca ci sono Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham, entrambi legati
alla filiale di al-Qaeda in Siria – il Fronte al-Nusra – e al centro
degli sforzi di Washington e della monarchia saudita per essere inclusi
nell’opposizione da considerare “moderata”. Con il sostegno di Riyadh,
qualche giorno fa la commissione per i negoziati che dovrebbe
presentarsi a Ginevra ha adottato una decisione provocatoria, nominando
come capo negoziatore proprio il leader politico di Jaish al-Islam,
Mohammed Alloush.
I governi che si battono per il rovesciamento
di Assad si sono detti finora contrari all’inclusione di una terza
delegazione da invitare ai colloqui di Ginevra, come proposto da Mosca e
Damasco, formata ad esempio dai curdi siriani delle Unità di Protezione
Popolare (YPG) o da rappresentanti della società civile.
Di
fronte alle posizioni contrastanti, il segretario di Stato americano,
John Kerry, nel corso di una visita in Laos lunedì ha annunciato che
l’inizio dei negoziati è stato spostato, dal momento che “è meglio un
rinvio di qualche giorno piuttosto che assistere al crollo [delle
trattative]” prima che esse abbiano inizio. Sempre lunedì, l’inviato
speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, ha
manifestato l’intenzione di inaugurare i colloqui venerdì prossimo, pur
non nascondendo le difficoltà.
Il diplomatico italo-svedese ha
fatto sapere che martedì verranno inviato gli inviti alle parti
coinvolte. In questa fase, i negoziati dovrebbero durare dalle due alle
tre settimane, per concludersi, nella migliore delle ipotesi, in un
cessate il fuoco per consentire l’accesso in Siria di aiuti umanitari.
Il
governo di Assad ha da parte sua già dato da tempo la propria
disponibilità a mandare a Ginevra una delegazione per trattare un
eventuale processo di pace e di transizione che dovrebbe portare a
elezioni in Siria entro 18 mesi. L’opposizione sponsorizzata da Riyadh
chiede però che, prima di sedersi al tavolo delle trattative, Damasco
implementi alcune misure previste dalla recente risoluzione del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tra cui lo stop ai bombardamenti e agli
“assedi” delle aree controllate dai “ribelli”.
Le difficoltà che
stanno incontrando i negoziati di pace anche solo per prendere il via
dimostrano quanto sia in salita la strada verso una risoluzione
diplomatica della crisi che dura ormai da quasi cinque anni. Dietro alle
dispute a cui si sta assistendo in questi giorni ci sono d’altra parte
sempre gli interessi divergenti tra gli attori impegnati sui due fronti
contrapposti in Siria.
Da
un lato, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente,
dietro la guerra allo Stato Islamico (ISIS), continuano ad appoggiare
le milizie dell’opposizione, incluse quelle di orientamento
fondamentalista se non apertamente terrorista, per raggiungere il loro
vero obiettivo, cioè la rimozione del regime di Damasco.
Soprattutto la Turchia, poi, mantiene rapporti ambigui con lo stesso
ISIS, come dimostrato dalla Russia qualche settimana fa, preferendo di
gran lunga la presenza del “califfato” oltre il confine meridionale al
coagularsi di un semi-stato curdo.
D’altro canto, l’intervento
militare diretto della Russia dallo scorso settembre a fianco
dell’alleato siriano ha stabilizzato il regime di Assad, permettendo
anzi a quest’ultimo di recuperare territori in mano ai “ribelli”.
L’efficacia dei bombardamenti russi ha così stravolto i piani di USA,
Turchia e Arabia Saudita, nonostante l’impegno di questi paesi nel
sostenere l’opposizione armata in Siria.
Washington, così come i
suoi alleati, non ha tuttavia modificato il proprio obiettivo strategico
finale in Siria ma, essendo cambiata la realtà sul campo dopo l’azione
del Cremlino, intende raggiungerlo con un mix di impegno militare e
manovre diplomatiche. Infatti, negli ultimi mesi esponenti
dell’amministrazione Obama e vertici militari USA hanno alternato
dichiarazioni e iniziative a sostegno dei negoziati di pace ad annunci
circa un maggiore dispiegamento di forze in Iraq e in Siria,
ufficialmente sempre per combattere l’ISIS.
Se è vero che
Washington ha ammorbidito la propria posizione sul ruolo di Bashar
al-Assad, smettendo di chiedere le sue dimissioni come condizione
preliminare per l’avvio dei negoziati, d’altro canto non ha mai fatto
mancare l’appoggio sostanziale alle posizioni estreme sulla crisi in
Siria di Turchia e Arabia Saudita, malgrado l’opera altamente
destabilizzante portata avanti da entrambi i paesi. Kerry e il
vice-presidente USA, Joe Biden, non a caso hanno visitato
rispettivamente Riyadh e Istanbul recentemente, evitando qualsiasi
critica ai due regimi e confermando invece la soddisfazione del loro
governo per il comportamento degli alleati.
Una notizia che ha
confermato questa disposizione americana è stata quella diffusa nel fine
settimana circa la creazione di una base militare USA nella Siria
nord-orientale non lontano dal confine con la Turchia. L’iniziativa
dovrebbe servire ufficialmente a ospitare un certo numero di membri
delle Forze Speciali in appoggio ai “ribelli” impegnati contro l’ISIS.
Soprattutto,
però, oltre a essere una gravissima violazione della sovranità siriana,
la decisione di Washington rischia di provocare uno scontro con le
forze russe presenti in Siria, visto che Mosca, con il consenso del
governo legittimo di Damasco, starebbe valutando a sua volta la
possibilità di costruire una struttura fortificata nella stessa area.
La
Russia intende rafforzare la propria presenza lungo il corridoio che
collega la Siria alla Turchia per bloccare il transito di uomini, armi e
denaro destinati all’opposizione armata anti-Assad, cosa che Ankara ha
al contrario cercato di evitare, ben sapendo che una simile
iniziativa assesterebbe un colpo mortale alle milizie “ribelli” che
perseguono i suoi stessi obiettivi, a cominciare da quelle di tendenze
fondamentaliste.
La notizia della mossa americana è giunta
comunque singolarmente in concomitanza con la riconquista da parte
dell’esercito di Damasco, con l’appoggio aereo di Mosca, della località
di Rabia, in mano ai “ribelli” fin dal 2012 e ritenuta cruciale per il
controllo della provincia costiera di Latakia, vera e propria roccaforte
alauita (sciita) del regime di Assad.
Quest’ultimo successo
militare delle forze governative deve avere gettato molti ancor più
nello sconforto a Washington, nonché, ad Ankara, il presidente turco
Erdogan e il suo primo ministro Davutoglu. A Rabia erano presenti gruppi
armati facenti capo al Fronte al-Nusra e di etnia turcomanna, finora
strenuamente difesi dalla Turchia. Queste formazioni rischiano poi di
subire altri rovesci nel prossimo futuro, come ha spiegato un comandante
dell’esercito siriano all’agenzia di stampa francese AFP, visto che
Damasco e Mosca utilizzeranno Rabia come base per lanciare operazioni
contro postazioni “ribelli” nella vicina provincia di Idlib in direzione
est.
L’offensiva
russo-siriana sta sempre più minacciando le rotte dei rifornimenti
considerate vitali per le milizie anti-Assad, con possibili effetti sui
negoziati di Ginevra. A fronte della campagna mediatica occidentale, i
delegati delle formazioni che dovrebbero sedersi al tavolo delle
trattative, oltre a non avere di fatto alcuna base di sostegno popolare
in Siria, potranno esibire una sempre più ridotta influenza sulle
vicende militari sul campo. Ciò trasformerà in poco più di una farsa la
loro pretesa, e quella dei loro sponsor, di dettare le condizioni per il
raggiungimento di una soluzione pacifica del conflitto, cominciando
dall’estromissione di Assad dal processo di transizione politica.
Con
la situazione sul campo che si sta venendo a creare, dunque, i
negoziati di “pace” potrebbero diventare, per gli Stati Uniti e i loro
alleati dentro e fuori la Siria, un modo per guadagnare tempo e fermare
in qualche modo l’avanzata delle forze regolari contro la galassia dei
“ribelli”/terroristi anti-Assad, in modo da riorganizzare queste milizie
e cercare di ristabilire gli equilibri, se necessario anche attraverso
l’impegno diretto, o la minaccia di esso, in territorio siriano.
La
soluzione negoziata non è mai stata d’altra parte un’opzione acettabile
per la fine della crisi in Siria da parte dell’Occidente e dei regimi
mediorientali sunniti, a meno che non preveda la sottomissione di Assad o
la sua deposizione. Quest’ultima ipotesi è però sempre più improbabile,
visti gli sviluppi sul fronte militare, così che, al di là dell’avvio o
meno di Ginevra III nei prossimi giorni, è tutt’altro che inverosimile
attendersi un nuovo tentativo di escalation del conflitto da parte di
coloro che, a Washington, Ankara o Riyadh, rischiano di veder svanire il
sogno del cambio di regime a Damasco su cui hanno investito
massicciamente in questi ultimi anni.
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