di Michele Paris
La lunga vigilia dell’annuale cerimonia che il 28 febbraio prossimo
vedrà la consegna degli Academy Awards (Oscar) a Los Angeles continua a
essere scossa dalle polemiche sollevate da alcuni attori e registi di
colore per l’assenza di interpreti appartenenti a una minoranza etnica
tra i candidati alla statuetta nelle principali categorie. Ad animare la
protesta sono in particolare il regista Spike Lee e l’attrice Jada
Pinkett Smith, moglie di Will Smith, i quali, pur respingendo il
concetto di “boicottaggio”, hanno annunciato che non prenderanno parte
né seguiranno in TV la prossima consegna degli Oscar.
Questa
iniziativa si è propagata in fretta negli Stati Uniti, anche grazie al
(ri)lancio dell’hashtag #OscarsSoWhite, trovando terreno fertile tra
giornalisti, pseudo-intellettuali e personaggi del mondo dello
spettacolo di orientamento “liberal”, convinti che i veri problemi della
società americana abbiano a che fare esclusivamente con le tematiche
razziali (o relative all’orientamento sessuale).
Secondo i
protagonisti della contestazione, diretta contro i membri dell’Academy
of Picture Arts and Sciences (AMPAS), sarebbe inammissibile che, per il
secondo anno consecutivo, tra i candidati e le canditate all’Oscar per
il ruolo di migliore attore/attrice protagonista e non protagonista non
vi sia nemmeno un interprete di colore, oppure ispanico, asiatico, ecc.
Fermo
restando che il sopravvalutato Spike Lee o la consorte di Will Smith
non sono sfiorati dall’idea che, semplicemente, nella stagione scorsa
non ci siano stati attori di colore che hanno fornito prestazioni
meritevoli di una “nomination”, sia pure secondo gli standard
dell’AMPAS, la protesta in corso ha ben poco a che vedere con un genuino
impegno per i diritti delle minoranze oppresse e, soprattutto, contro
le colossali ingiustizie sociali che interessano un paese come gli Stati
Uniti e di cui le prime vittime sono appunto neri e ispanici.
Detto
questo, è innegabile che i criteri di scelta dei candidati da premiare
adottati dall’Academy siano quanto meno discutibili, come dimostrano la
modestia e la banalità che spesso caratterizzano le pellicole candidate e
premiate. Con buona pace di quanti protestano per la mancanza di
candidati di colore, l’Academy in passato ha inoltre mancato di premiare
o anche solo di candidare all’Oscar per i loro film artisti bianchi di
assoluto rilievo, come Orson Welles, Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock,
Howard Hawks, Fritz Lang, Buster Keaton, Robert Altman e molti altri.
Più
che altro, la mobilitazione contro gli Oscar, generalmente approvata
dalla stampa “progressista”, aiuta a comprendere l’attitudine nei
confronti dei problemi della società di coloro che vi stanno prendendo
parte. Spike Lee, in questo senso, è un caso esemplare, visto che
frequentemente in passato si è scagliato contro l’esclusione degli
afro-americani all’interno dell’industria cinematografica. Il regista di
Atlanta ha lamentato soprattutto la presenza quasi esclusiva ai vertici
degli “studios” americani di dirigenti bianchi, tra coloro cioè che
prendono le decisioni su quali film verranno girati e che, di
conseguenza, finiscono per intascare la maggior parte dei proventi della
distribuzione.
Questi scrupoli sono condivisi da molti nell’alta
borghesia americana appartenente a minoranze razziali e rivelano
un’aspirazione non tanto a vedere risolte le disuguaglianze sociali a
beneficio di tutte le fasce oppresse della popolazione, bensì a
consentire che un maggior numero di afro-americani o “latinos”, ma pur
sempre una piccola minoranza, possa accedere a posizioni decisionali ben
retribuite, sia nel mondo della politica sia del business.
A
queste motivazioni ha in qualche modo fatto riferimento nei giorni
scorsi un’altra attrice di colore, Janet Hubert, in una dura replica
alle prese di posizioni di Jada Pinkett Smith. La Hubert ha definito
“ironico” il fatto che “persone che hanno guadagnato milioni e milioni
di dollari grazie a coloro che intendono boicottare” propongano simili
iniziative “solo perché non hanno ottenuto una nomination”. Il
riferimento, in questo caso, è all’esclusione di Will Smith dalla rosa
dei candidati all’Oscar per migliore attore dopo che era stato da molti
indicato come uno dei possibili favoriti per la sua interpretazione nel
film Concussion.
La stessa attrice ha anche ricordato come i
coniugi Smith siano “parte di Hollywood” e di un “sistema che è ingiusto
verso altri attori”, visto che posseggono una grande casa di produzione
che realizza esclusivamente pellicole in cui sono coinvolti loro
stessi, i loro amici o i membri della loro famiglia.
Le critiche
all’Academy e all’industria del cinema negli Stati Uniti sono in ogni
caso più che legittime, ma dovrebbero se mai riguardare l’esclusione
dalle “nomination” di film e, ancor più, il sostanziale disinteresse a
produrre pellicole che affrontino con serietà i problemi sociali – che
riguardano bianchi e neri – e politici di un paese attraversato da
tensioni e contraddizioni enormi, nonché guidato da una classe dirigente
al limite, se non al di là, della criminalità.
La fissazione
sulle questioni razziali serve in sostanza a occultare quelle di classe,
alla base della crisi sociale che attraversa gli Stati Uniti, e finisce
paradossalmente per promuovere un’idea di società reazionaria, fondata
su quelle stesse divisioni che si vorrebbe combattere. La logica
conseguenza di battaglie come quella propagandata nell’ambito
relativamente ristretto del mondo del cinema da #OscarsSoWhite porta a
promuovere l’istituzionalizzazione di un sistema di “quote” riservate
alle minoranze o, meglio, alle élite appartenenti alle minoranze
etniche, che in nessun modo contribuisce a risolvere le esplosive
differenze sociali prodotte dal capitalismo.
Negli USA, peraltro,
questo sistema – definitivo “affirmative action” – è già in essere ad
esempio in ambito scolastico, con le università che adottano in parte
criteri puramente razziali per assicurare che un certo numero di propri
studenti appartenga a una minoranza etnica. Questo sistema, attaccato da
molti da destra e giunto un paio di volte all’attenzione della Corte
Suprema negli ultimi anni, viene usato dalla classe dirigente americana
come valvola di sfogo delle tensioni sociali e razziali, così da dare
l’impressione di una società equa che consente a chiunque di entrare a
far parte dell’élite.
Tornando alla protesta contro la cerimonia
degli Oscar, le premesse a dir poco discutibili che la caratterizzano
hanno dato vita a prese di posizione bizzare e difficilmente
commentabili. Ad esempio, la presunta ideatrice dell’hashtag
#OscarsSoWhite in un’intervista alla testata Hollywood Reporter si è
chiesta per quale ragione il film di Ridley Scott The Martian
(Sopravvissuto) dello scorso anno, interpretato da Matt Damon, non
avrebbe potuto avere come protagonista un attore affermato di colore
(Jamie Foxx) o ispanico (Javier Bardem). Questa affermazione lascia
intendere, assurdamente, che la scelta di Matt Damon sarebbe stata
dettata da considerazioni di natura razzista.
Ad ogni modo, il
movimento contro le presunte discriminazioni dell’AMPAS ha già prodotto
qualche effetto. Per cominciare, parecchie pressioni sono state fatte
sul conduttore della cerimonia del 28 febbraio, l’attore di colore Chris
Rock, per convincerlo a rinunciare all’incarico.
Inoltre, i
vertici dell’Academy hanno annunciato che si riuniranno eccezionalmente
la prossima settimana per discutere una serie di cambiamenti dei criteri
di selezione delle pellicole e degli attori candidati all’Oscar in modo
che essi rispecchino maggiormente le diversità etniche della società
americana.
La
decisione è giunta dopo che il presidente dell’Academy,
l’afro-americana Cheryl Boone Isaacs, si era detta “dispiaciuta e
frustrata” per la scelta di attrici e attori esclusivamente bianchi. La
preoccupazione principale è dettata probabilmente dal timore che la
protesta raccolga sempre più consensi e si trasformi in un vero e
proprio boicottaggio, compromettendo la vendita dei diritti televisivi
della cerimonia di premiazione, di fatto la principale fonte di entrate
dell’AMPAS.
Tra i cambiamenti allo studio ci sarebbe
l’allargamento del numero di pellicole “nominate” da 5 a 10, come è
avvenuto talvolta in passato, in modo da favorire l’inclusione di film
diretti o interpretati da afro-americani. Ugualmente, i candidati
all’Oscar nelle categorie attori protagonisti e non protagonisti
potrebbero salire a 10, anche se in questo caso le perplessità
sembrerebbero essere maggiori, poiché la formula che prevede 5 candidati
resiste fin dagli anni Trenta.
Un altro cambiamento potrebbe
riguardare infine le modalità di voto e la stessa composizione dei
membri dell’Academy, con nuove nomine e meccanismi per favorire
l’esclusione di quanti non lavorano da anni nel mondo del cinema. Questo
approccio appare però piuttosto delicato. I membri dell’Academy ne
fanno parte infatti a vita e qualsiasi modifica che comprometta il loro
status e la libertà di cui godono nella scelta delle “nomination”
potrebbe incontrare fortissime resistenze.
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