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15/01/2016

La Tunisia ricorda la rivoluzione e chiede "libertà, dignità e lavoro"

di Sonia Grieco

Dietro lo slogan ‘lavoro, libertà, dignità’, migliaia di tunisini ieri si sono radunati nelle strade della capitale per celebrare il quinto anniversario della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, che ispirò le rivolte in Egitto, Siria, Yemen, Bahrein e in altri Stati mediorientali e nordafricani. Finite in maniera ben diversa.

La primavera tunisina resta nell’opinione di molti analisti l’unica riuscita, un “successo”, o “un’eccezione”, come l’ha definita ieri il primo ministro Habib Essid, ma continua a fare i conti con i retaggi del passato (il regime decennale di Zine El-Abidine Ben Ali), con i problemi economici che in parte la scatenarono (iniziò a Sidi Bouzid, città agricola del centro della Tunisia, dove il 17 dicembre 2010 il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco, e morì, in protesta per la confisca del banchetto che dava da campare alla sua famiglia), con le fibrillazioni politiche e con la minaccia della violenza jihadista che ha colpito il Paese confinante con l’instabile Libia, dove arrivano decine di tunisini per unirsi ai gruppi legati all’Isis e ad Al Qaeda.

Un anniversario, dunque, segnato da emozioni contrastanti: la gioia per una conquistata, anche se incompiuta, democrazia e la delusione delle aspettative delle migliaia di tunisini che sfidarono la repressione violenta di Ben Ali per lunghe settimane, in cui morirono centinaia di persone, tra cui tantissimi giovani. Chiedevano la libertà, certo, ma anche lavoro. La Tunisia resta ancor ‘oggi bloccata da un alto tasso di disoccupazione, tra i giovani, soprattutto. E il fanatismo di stampo religioso attinge nello scontento di una generazione molto spesso istruita e professionalizzata, eppure esclusa dal mercato del lavoro.

“La rivoluzione non mi ha aiutata in alcun modo”, spiega Latifa, sarta di quarant’anni, all’agenzia AFP. “I prezzi sono saliti, molti giovani sono ancora marginalizzati, ma sono comunque venuta a celebrare (l’anniversario), perché la rivoluzione ci ha portato un po’ di democrazia e questo è importante”.

In Tunisia negli ultimi cinque anni si è votato due volte: nel 2011 e nel 2014. Ed entrambe le tornate elettorali si sono svolte in maniera libera e corretta. È stata adottata una Costituzione giudicata tra le più avanzate del mondo arabo. La società civile ha preso parte al processo di transizione in maniera incisiva. Un ruolo che gli è valso il premio Nobel per la Pace 2015, assegnato al Quartetto di dialogo nazionale, composto dal potente sindacato generale tunisino UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail), dalla confederazione industriale e del commercio (UTICA, Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat), dalla lega dei diritti umani (LTDH, La Ligue Tunisienne pour la Défense des Droits de l’Homme), e dall’ordine degli avvocati (Ordre National des Avocats de Tunisie).

Ma a queste conquiste bagnate dal sangue di centinaia di persone, si contrappone una costante instabilità politica. Il partito islamico moderato Ennahda nel 2014 ha lasciato il potere alla formazione laica Nidaa Tounes, sostenuta però anche da ex fedeli di Ben Ali e oggi alle prese con una crescente frammentazione che gli ha fatto perdere la maggioranza in Parlamento. In molte zone del Paese la povertà è ancora diffusa e la questione sicurezza è diventata primaria dopo i due attentati dell’anno scorso – al Museo Bardo e al resort di Sousse (60 morti) – che hanno assestato un duro colpo al rilevante settore turistico.

La strada è ancora in salita. Ieri il primo ministro Essid ha parlato di orgoglio tunisino, si è impegnato a “realizzare le istanze della rivoluzione”, a garantire una “vita dignitosa per tutti”, ma ha ricordato che la battaglia contro il terrorismo “resta una condizione essenziale”. C’è chi teme, però, che le ragioni di sicurezza blocchino, o persino cancellino, le liberà sinora conquistate.

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