di Sonia Grieco
Dietro lo slogan ‘lavoro,
libertà, dignità’, migliaia di tunisini ieri si sono radunati nelle
strade della capitale per celebrare il quinto anniversario della
cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, che ispirò le rivolte in Egitto,
Siria, Yemen, Bahrein e in altri Stati mediorientali e nordafricani.
Finite in maniera ben diversa.
La primavera tunisina resta nell’opinione di molti analisti
l’unica riuscita, un “successo”, o “un’eccezione”, come l’ha definita
ieri il primo ministro Habib Essid, ma continua a fare i conti con i
retaggi del passato (il regime decennale di Zine El-Abidine Ben
Ali), con i problemi economici che in parte la scatenarono (iniziò a
Sidi Bouzid, città agricola del centro della Tunisia, dove il 17
dicembre 2010 il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi si diede
fuoco, e morì, in protesta per la confisca del banchetto che dava da
campare alla sua famiglia), con le fibrillazioni politiche e con la
minaccia della violenza jihadista che ha colpito il Paese confinante con
l’instabile Libia, dove arrivano decine di tunisini per unirsi ai
gruppi legati all’Isis e ad Al Qaeda.
Un anniversario, dunque, segnato da emozioni contrastanti: la
gioia per una conquistata, anche se incompiuta, democrazia e la
delusione delle aspettative delle migliaia di tunisini che sfidarono la
repressione violenta di Ben Ali per lunghe settimane, in cui morirono
centinaia di persone, tra cui tantissimi giovani. Chiedevano la libertà,
certo, ma anche lavoro. La Tunisia resta ancor ‘oggi bloccata
da un alto tasso di disoccupazione, tra i giovani, soprattutto. E il
fanatismo di stampo religioso attinge nello scontento di una generazione
molto spesso istruita e professionalizzata, eppure esclusa dal mercato
del lavoro.
“La rivoluzione non mi ha aiutata in alcun modo”, spiega Latifa, sarta di quarant’anni, all’agenzia AFP.
“I prezzi sono saliti, molti giovani sono ancora marginalizzati, ma
sono comunque venuta a celebrare (l’anniversario), perché la rivoluzione
ci ha portato un po’ di democrazia e questo è importante”.
In Tunisia negli ultimi cinque anni si è votato due volte: nel 2011 e
nel 2014. Ed entrambe le tornate elettorali si sono svolte in maniera
libera e corretta. È stata adottata una Costituzione giudicata tra le
più avanzate del mondo arabo. La società civile ha preso parte
al processo di transizione in maniera incisiva. Un ruolo che gli è valso
il premio Nobel per la Pace 2015, assegnato al Quartetto di dialogo
nazionale, composto dal potente sindacato generale tunisino
UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail), dalla confederazione
industriale e del commercio (UTICA, Union Tunisienne de l’Industrie, du
Commerce et de l’Artisanat), dalla lega dei diritti umani (LTDH, La
Ligue Tunisienne pour la Défense des Droits de l’Homme), e dall’ordine
degli avvocati (Ordre National des Avocats de Tunisie).
Ma a queste conquiste bagnate dal sangue di centinaia di persone, si
contrappone una costante instabilità politica. Il partito islamico
moderato Ennahda nel 2014 ha lasciato il potere alla formazione laica
Nidaa Tounes, sostenuta però anche da ex fedeli di Ben Ali e oggi alle
prese con una crescente frammentazione che gli ha fatto perdere la
maggioranza in Parlamento. In molte zone del Paese la povertà è
ancora diffusa e la questione sicurezza è diventata primaria dopo i due
attentati dell’anno scorso – al Museo Bardo e al resort di Sousse (60
morti) – che hanno assestato un duro colpo al rilevante settore
turistico.
La strada è ancora in salita. Ieri il primo ministro Essid ha parlato
di orgoglio tunisino, si è impegnato a “realizzare le istanze della
rivoluzione”, a garantire una “vita dignitosa per tutti”, ma ha
ricordato che la battaglia contro il terrorismo “resta una condizione
essenziale”. C’è chi teme, però, che le ragioni di sicurezza blocchino, o
persino cancellino, le liberà sinora conquistate.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento