Questa è la storia di due ragazze. Dei loro fratelli. Di una piccola comunità che si mobilita per difendere diritti e dignità.
Ma è anche molto di più. Perché ci restituisce, in una forma
iper-concreta, che va oltre quello che possono riuscire ad esprimere
tante parole, a volte anche ben dette, cosa rappresentino gli immigrati
per coloro che detengono le leve del potere, per chi ha il potere di
scrivere leggi e per chi ha i capitali per utilizzarne il lavoro. E non
si ferma qui. Questa storia parla di solidarietà, resistenza, tenacia. E di una vittoria.
Piccola, se rimaniamo all’episodio. Potenzialmente ben più grande, se
siamo capaci di leggerla e comprenderla a tutti i livelli possibili.
Le due protagoniste di questa storia, che però come la Storia, è in
realtà storia corale, sono due ragazze. Due sorelle. Siriane. 19 e 22
anni. Con i fratelli sono in fuga dalla Siria. Lì hanno lasciato i
genitori ed altri 4 fratelli e sorelle. Scappano dall’orrore
dell’ISIS e se devono lasciarsi dietro parte della famiglia è perché non
tutti loro riescono ad evadere dal villaggio controllato dallo Stato
Islamico.
Scappano, dunque. E riescono a raggiungere la Turchia. Qui, nel paese
controllato da Erdogan, lì dove si dice di combattere contro il
“terrorismo islamico” ma poi si spara contro i peggiori nemici dell’IS,
le popolazioni curde, trovano lavoro in un ristorante. Vogliono cercare
di far arrivare qualche risparmio alla famiglia ancora in Siria.
Vogliono alleviare le loro sofferenze. Dal momento che sono
profughe siriane, però, non hanno alcun diritto in quanto lavoratrici.
Vengono pagate la metà di quanto sarebbe pagato un lavoratore turco e lo
sfruttamento è pane quotidiano.
Quando iniziano a lavorare, il proprietario del ristorante dice loro
che saranno pagate alla fine del mese, non prima. Nessun anticipo.
Accettano, anche perché non è che le alternative abbondino. Arrivate
alla fine del mese, però, non vedono una lira (eh sì, anche la moneta
turca si chiama lira).
Continuano nelle loro mansioni, nella fatica
quotidiana, perché sperano che la paga finalmente arrivi. Un secondo
mese. Poi un terzo. Niente. Solo promesse di imminenti pagamenti, che
però non arrivano mai. Alla fine, come in tante storie che ascoltiamo anche qui da noi, la beffa. Vengono semplicemente cacciate.
Essere profughe siriane non aiuta. Lavoratrici senza diritti non
possono procedere ad intentare qualche procedimento legale contro
l’imprenditore. Non esistono. Nemmeno l’intervento del fratello è
risolutore. Arriva al ristorante, parla col “boss”, ma niente. Di
sganciare gli stipendi dovuti e pattuiti non se ne parla.
Entra allora in scena un gruppo. Un piccolo gruppo, che però decide
di farsi carico della situazione. In 12 si dirigono al ristorante.
Mettono in atto una protesta, azione diretta direbbe qualcuno: si
siedono ai tavoli vuoti e rendono chiaro che non lasceranno i locali
finché non avranno ottenuto ciò che rivendicano: il pagamento delle tre
mensilità dovute alle due sorelle. I proprietari strepitano, danno di matto. Dopo mezz’ora, però, pagano un terzo di quanto dovuto. E dicono ai 12 di tornare nei giorni successivi per il resto.
Oggi quei 12 sono tornati. Ma non erano più 12, bensì 25! Non hanno
potuto replicare la stessa azione della volta precedente: il ristorante
era pieno e non c’erano tavoli liberi. Di questa situazione, però, i
manifestanti hanno saputo avvantaggiarsi. Hanno potuto infatti esporre
davanti ad un “pubblico” le motivazioni della loro presenza, aumentando
così le pressioni sui proprietari. Così, dopo trenta minuti di
trattativa, le due sorelle hanno ottenuto un altro terzo della loro
paga.
La storia per ora termina qui. Per ora, appunto. Perché mercoledì c’è
un terzo appuntamento per ottenere anche il restante terzo della paga
arretrata.
Come ha scritto uno dei ragazzi coinvolti nella protesta:
“Due ragazze sole possono essere sfruttate. La presenza del
fratello non ha fatto sì che la situazione cambiasse. Continuavano a
sentirsi impotenti. Come parte di una piccola, ma crescente comunità,
insieme, sono però diventate più forti. Non solo in quest’occasione, ma
più forti perché hanno iniziato a sentirsi parte di qualcosa di più
grande, che abbraccia anche loro.
Questa è la
definizione di comunità, che getta ponti su diverse solitudini, sulla
frammentazione. Insieme possiamo unire la nostra forza, dividerci il
lavoro e le responsabilità, in un modo che è impossibile se si è da
soli. Potere al popolo!”
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento