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02/03/2016

Due sorelle. Una comunità di lotta. Piccola storia di riscatto tra Siria e Turchia

Questa è la storia di due ragazze. Dei loro fratelli. Di una piccola comunità che si mobilita per difendere diritti e dignità. Ma è anche molto di più. Perché ci restituisce, in una forma iper-concreta, che va oltre quello che possono riuscire ad esprimere tante parole, a volte anche ben dette, cosa rappresentino gli immigrati per coloro che detengono le leve del potere, per chi ha il potere di scrivere leggi e per chi ha i capitali per utilizzarne il lavoro. E non si ferma qui. Questa storia parla di solidarietà, resistenza, tenacia. E di una vittoria. Piccola, se rimaniamo all’episodio. Potenzialmente ben più grande, se siamo capaci di leggerla e comprenderla a tutti i livelli possibili.

Le due protagoniste di questa storia, che però come la Storia, è in realtà storia corale, sono due ragazze. Due sorelle. Siriane. 19 e 22 anni. Con i fratelli sono in fuga dalla Siria. Lì hanno lasciato i genitori ed altri 4 fratelli e sorelle. Scappano dall’orrore dell’ISIS e se devono lasciarsi dietro parte della famiglia è perché non tutti loro riescono ad evadere dal villaggio controllato dallo Stato Islamico.

Scappano, dunque. E riescono a raggiungere la Turchia. Qui, nel paese controllato da Erdogan, lì dove si dice di combattere contro il “terrorismo islamico” ma poi si spara contro i peggiori nemici dell’IS, le popolazioni curde, trovano lavoro in un ristorante. Vogliono cercare di far arrivare qualche risparmio alla famiglia ancora in Siria. Vogliono alleviare le loro sofferenze. Dal momento che sono profughe siriane, però, non hanno alcun diritto in quanto lavoratrici. Vengono pagate la metà di quanto sarebbe pagato un lavoratore turco e lo sfruttamento è pane quotidiano.

Quando iniziano a lavorare, il proprietario del ristorante dice loro che saranno pagate alla fine del mese, non prima. Nessun anticipo. Accettano, anche perché non è che le alternative abbondino. Arrivate alla fine del mese, però, non vedono una lira (eh sì, anche la moneta turca si chiama lira).

Continuano nelle loro mansioni, nella fatica quotidiana, perché sperano che la paga finalmente arrivi. Un secondo mese. Poi un terzo. Niente. Solo promesse di imminenti pagamenti, che però non arrivano mai. Alla fine, come in tante storie che ascoltiamo anche qui da noi, la beffa. Vengono semplicemente cacciate. Essere profughe siriane non aiuta. Lavoratrici senza diritti non possono procedere ad intentare qualche procedimento legale contro l’imprenditore. Non esistono. Nemmeno l’intervento del fratello è risolutore. Arriva al ristorante, parla col “boss”, ma niente. Di sganciare gli stipendi dovuti e pattuiti non se ne parla.

Entra allora in scena un gruppo. Un piccolo gruppo, che però decide di farsi carico della situazione. In 12 si dirigono al ristorante. Mettono in atto una protesta, azione diretta direbbe qualcuno: si siedono ai tavoli vuoti e rendono chiaro che non lasceranno i locali finché non avranno ottenuto ciò che rivendicano: il pagamento delle tre mensilità dovute alle due sorelle. I proprietari strepitano, danno di matto. Dopo mezz’ora, però, pagano un terzo di quanto dovuto. E dicono ai 12 di tornare nei giorni successivi per il resto.

Oggi quei 12 sono tornati. Ma non erano più 12, bensì 25! Non hanno potuto replicare la stessa azione della volta precedente: il ristorante era pieno e non c’erano tavoli liberi. Di questa situazione, però, i manifestanti hanno saputo avvantaggiarsi. Hanno potuto infatti esporre davanti ad un “pubblico” le motivazioni della loro presenza, aumentando così le pressioni sui proprietari. Così, dopo trenta minuti di trattativa, le due sorelle hanno ottenuto un altro terzo della loro paga.

La storia per ora termina qui. Per ora, appunto. Perché mercoledì c’è un terzo appuntamento per ottenere anche il restante terzo della paga arretrata.

Come ha scritto uno dei ragazzi coinvolti nella protesta:

“Due ragazze sole possono essere sfruttate. La presenza del fratello non ha fatto sì che la situazione cambiasse. Continuavano a sentirsi impotenti. Come parte di una piccola, ma crescente comunità, insieme, sono però diventate più forti. Non solo in quest’occasione, ma più forti perché hanno iniziato a sentirsi parte di qualcosa di più grande, che abbraccia anche loro.
Questa è la definizione di comunità, che getta ponti su diverse solitudini, sulla frammentazione. Insieme possiamo unire la nostra forza, dividerci il lavoro e le responsabilità, in un modo che è impossibile se si è da soli. Potere al popolo!”

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