di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Chi gioca con il fuoco,
finisce per bruciarsi. E per bruciare miliardi di dollari. Per il
bellicoso presidente Erdogan il fuoco su cui ha sacrificato la stabilità
dell’economia interna è una strategia regionale e internazionale
fondata sull’attacco camuffato da difesa. Non sempre brandire lo
strumento militare dentro e fuori i confini nazionali giova, soprattutto
se viene usato per intaccare la rinnovata supremazia russa.
Dal 2011 la politica di Ankara in Medio Oriente ha avuto come
stella polare il tentativo di assumere il ruolo di guida regionale.
Per questo Erdogan ha sacrificato anni di buone relazioni con il
presidente siriano Assad, intessuto rapporti di cooperazione con le
petromonarchie del Golfo e sacrificato il negoziato con il Pkk in nome
del sogno di rifondare qualcosa di simile all’impero ottomano.
Ma ha fallito. La Turchia di oggi è un paese devastato
dall’autoritarismo interno e dalle conseguenze economiche della frattura
con la Russia. Mosca ha reagito con sprezzo alle provocazioni di Ankara,
che hanno raggiunto il loro apice con l’abbattimento di un jet al
confine turco-siriano: sono state imposte restrizioni sui cittadini turchi
in ingresso in Russia e sulle compagnie turche attive nel paese, mentre
venivano cancellati centinaia di contratti di appalto e ridotti i voli
delle società aeree turche.
Erdogan ha provato a mettere una pezza almeno nel settore energetico:
per coprire il gap lasciato dal gas russo (che copriva il 60% del
fabbisogno interno) e per non subire troppo gli effetti dello stralcio
del progetto Turkish Stream, conduttura che avrebbe collegato la Russia
all’Europa, Ankara si è gettata su Israele e Kurdistan iracheno.
Ma limitare i danni negli altri settori economici è un altro
paio di maniche. Se nel 2013 il valore dell’export turco in Russia aveva
raggiungo i 7 miliardi di dollari (il 4,6% del totale), nel 2015 è
crollato sotto i 4 e continua rapidamente a ridursi. Ad
arrancare sono soprattutto due settori, agricoltura e turismo. Nella
provincia orientale di Antalya, rinomata meta turistica ma anche
principale area di produzione di frutta e verdura, gli
agricoltori lanciano l’allarme: il settore è quasi del tutto fermo a
causa della radicale diminuzione delle esportazioni, prima dirette in
Russia, Est Europa e nel resto del mondo arabo.
Se fino a poco tempo fa il settore agricolo di Antalya viveva un boom
senza precedenti, oggi non restano che le briciole: negli ultimi cinque
anni l’esportazione di frutta fresca e verdure aveva superato il
miliardo di dollari l’anno, grazie alla coltivazione in serra e agli
agrumeti, e aveva raggiunto un livello produttivo di circa 30 milioni di
tonnellate, facendo della Turchia il quinto paese al mondo per densità
di serre agricole.
Oggi la gallina dalle uova d’oro piange miseria. Come spiega la Camera di Commercio di Kumluca, ad
Antalya il settore aveva già subito un collasso a causa dei conflitti
regionali che impedivano esportazioni regolari e ora il colpo di grazia
arriva per mano delle sanzioni russe: secondo il Ministero
dell’Agricoltura, la perdita per l’agricoltura dovuta agli screzi con
Mosca ammonta a 764 milioni di dollari. «La produzione è
limitata e i prezzi sono alti per la stagione invernale. Ci aspettiamo
un calo ancora maggiore nei prossimi mesi. Oggi i contadini vanno avanti
con i mutui. Molti hanno debiti con gli intermediari e, se non
venderanno i loro prodotti, l’intero settore ne sarà danneggiato».
E poi c’è il turismo, colpito sia dal rapido e drammatico calo dei
visitatori russi che dall’instabilità dovuta ai recenti attentati. Che
la mano sia dell’Isis, coccolato per mesi dalle autorità turche, o di
gruppi separatisti kurdi in cerca di vendetta per la brutale campagna in
corso a sud est, è facile cogliere le responsabilità politiche del
governo dell’Akp. Eppure il settore è fondamentale: il solo a crescere
costantemente, dà lavoro a oltre un milione di persone a cui vanno
aggiunti altri milioni di stagionali.
Dopo il divieto di Mosca alla vendita nel proprio territorio
di pacchetti turistici turchi e l’embargo contro le compagnie aeree
turche, il turismo russo è sceso in pochi mesi del 18,5%, passando da
quasi 5 milioni di turisti l’anno a 3,5 milioni nel 2015, provocando una
riduzione delle entrate pari al 33%. E il futuro è nero: a
gennaio 2016 il calo di turisti russi è stato pari al 81%, quello di
tedeschi del 16% e quello degli olandesi del 20%.
La turca Economic Policy Research Foundation calcola che nel 2016 le
perdite per l’economia turca a causa delle sanzioni russe supererà gli 8
miliardi di dollari. Il governo prova a correre ai ripari: il premier
Davutoglu ha annunciato un pacchetto di 87 milioni di dollari, dopo le
funeree aspettative per l’estate che parlano di un meno 40% di turisti
sulle spiagge turche e la fuga di otto compagnie di crociera.
Un elemento positivo, però, emerge: l’enorme afflusso di
rifugiati siriani nel paese – circa 2,6 milioni di persone – ha dato una
spinta all’economia interna. Rifugiati sì, ma anche consumatori, che
secondo il governo permetteranno al Pil di aumentare del 4,5%, contro il
previsto 4%. Le famiglie siriane comprano pane, farina,
frigoriferi e stufe elettriche e in tanti entrano nel mercato del lavoro
in nero. Secondo i dati della Turkish Trade Union Confederation, ogni
rifugiato spende in media 117 dollari la mese. Sommati, proprio quel
0,5% in più.
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