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Ho già avuto modo di affermare in questo testo che o ci sarà , nel 21° secolo, una svolta epocale nei modi di produrre, lavorare, consumare, spostarsi o sarà la guerra, prima di quanto potremmo aspettarci.
E non si tratta solo di una svolta tecnica e merceologica, urge anche e soprattutto una svolta politica democratica, che redistribuisca il potere nelle società e nelle varie aree del pianeta.
Si tratta, in altre parole, di attualizzare il messaggio di Rosa Luxemburg d’inizio ‘900 – “o socialismo o barbarie” – nell’epoca dell’esaurimento delle risorse fossili, dei cambiamenti climatici e dell’implosione dell’effimero impero statunitense.
Nella storia recente, le società capitalistiche fondate sul consumo di carbone e soprattutto di petrolio (con l’ultima variante del gas) ci hanno condotto ad un modello produttivo e decisionale accentrato ed autoritario, che sta sconfinando nella fascistizzazione.
La messa a ferro e fuoco del Medio Oriente nell’ultimo mezzo secolo è la pagina centrale e più esplicita di questa storia recente. E’ la pagina che descrive nel migliore dei modi il fallimento della società capitalistica nel suo complesso: fallimento umanitario innanzitutto, ma anche economico, ecologico, persino finanziario, come si sta vedendo negli ultimi mesi di questo significativo 2008.
In questo senso, il riconoscimento dei diritti dei palestinesi, degli iracheni, degli afghani, degli iraniani, è il primo passo per cambiare strada. Uscire dall’abuso dei combustibili fossili e dal modello di produzione/consumi occidentale per passare alle energie alternative ed a un nuovo modello sobrio ed autocentrato deve essere l’occasione epocale per passare alla democrazia (e viceversa), alla distribuzione del potere, ad un mondo multipolare non in competizione ma in cooperazione, composto da soggetti diversi quanto identici in dignità e diritti.
Avrebbe ben poco senso che la transizione alle energie alternative e ad una produzione socialmente utile e rispettosa dell’ambiente venisse gestita dalle multinazionali, che lo farebbero ovviamente per le loro finalità (il profitto) e con i loro criteri.
Leggevo giorni fa che gli algerini (non esattamente gli operai della raffineria di Skikda, né i beduini) stanno pensando di produrre e trasportare energia solare in Germania.
E Carlo Rubbia che affermava – a mo’ di esempio, ovviamente – che sarebbe sufficiente un enorme pannello solare di 200 chilometri di lato per fornire energia elettrica a tutto il globo, occupando solo lo 0,1 % della superficie desertica del Sahara.
Ecco, a mio avviso, è esattamente questo che occorre evitare nella transizione ad un altro modo di produrre, energia elettrica e non solo, possibile ed indispensabile. Occorre evitare il gigantismo che si tradurrebbe nella prosecuzione dell’indispensabilità del ruolo delle multinazionali, e nel convogliamento verso il nord della produzione “alternativa”.
Restringendo il campo all’energia, in questo senso l’“opzione idrogeno” è scivolosa e merita, insieme a grande attenzione ed interesse, anche grande cautela. Mentre la pala eolica – che arriveremo a costruire anche in materiale rinnovabile – o il pannello solare si possono installare fin nei più sperduti villaggi rurali, dove vive la maggioranza dell’umanità, dando loro un importante strumento di sviluppo, insieme al pieno controllo della “loro” nuova energia, l’”opzione idrogeno” si presta allo sfruttamento gigante, ed è facile prevedere che richiamerà (sta già richiamando) l’interesse industrialista delle multinazionali.
L’idrogeno – che non è una fonte di energia, ma un vettore ed un modo per immagazzinare energia – è un ottimo combustibile, migliore del gas naturale, che bruciando non produce emissioni nocive, solo acqua pura.
Non esistono giacimenti d’idrogeno in natura, ma lo si può tuttavia ottenere in vari modi, tra i quali il più pulito e “rinnovabile” è l’elettrolisi dell’acqua, anche di mare.
L’elettrolisi è un procedimento elettro-chimico molto semplice e conosciuto da oltre un secolo, nel quale gli elementi chimici che compongono l’acqua (idrogeno e ossigeno) vengono scissi (lisi = rottura) dall’elettricità in idrogeno e ossigeno gassosi, quindi opportunamente aspirati ed immagazzinati.
Si può produrre idrogeno a costo quasi zero, dove il “quasi” sta per:
1) costo dell’impianto di elettrolisi e depositi connessi;
2) costo dell’energia elettrica necessaria al processo (il costo maggiore), che è a sua volta quasi zero se l’energia elettrica è di fonte rinnovabile, ad esempio eolica o solare (il “quasi” è rappresentato dal costo delle pale eoliche o dei pannelli solari), mentre è molto elevato se l’energia elettrica utilizzata nel processo è di fonte fossile.
In altra parte di questo lavoro cito John Haldane che, già nel 1923, preconizzava schiere di pale eoliche che generassero energia elettrica sfruttabile direttamente in rete ed il cui eccesso di generazione fosse dedicato all’elettrolisi dell’acqua in un impianto annesso, per produrre idrogeno da bruciare in una centrale termoelettrica nei periodi di insufficiente ventosità o comunque all’occorrenza.
L’idea di Haldane – semplice, pulita ed efficace – fu lasciata cadere semplicemente perché nel 1923 il grosso del business petrolifero doveva ancora dispiegarsi: un delitto epocale contro l’umanità e il pianeta, i cui responsabili hanno nomi e cognomi di petrolieri corruttori e politici corrotti.
Ora che il grosso del business petrolifero – e del correlato disastro umanitario ed ambientale – è compiuto, le multinazionali riscoprono l’idrogeno, anche se non si capiscono ancora le modalità precise.
Certo, ed è qui la scivolosità di cui scrivevo all’inizio del paragrafo, l’“opzione idrogeno” si presta bene al gigantismo industrialista, l’unica dimensione a cui le multinazionali sono interessate, perché il profitto è inscindibile dall’“economia di scala”: grandi impianti di elettrolisi, enormi depositi ad alto rischio (“probabilmente interrati”, consigliava il giovane Haldane nel 1923), grandi centrali elettriche policombustibile (a idrogeno e a carbone, probabilmente), una rete di distribuzione mastodontica per gli automezzi (che ricalcherebbe quella attuale di benzina/gasolio/gas), una riconversione estremamente profittevole di tutto il parco veicoli del globo, ecc.
Una riconversione globale talmente immensa, che non si vede proprio come potrebbe essere compiuta in tempo, nei pochi decenni di petrolio e gas che ci restano. E che richiederebbe enormi investimenti.
Ma solo in maniera così gigantesca si può impostare l’economia all’idrogeno?
No, se ce ne fosse la volontà.
Le “celle a combustibile” a idrogeno potrebbero invece decentrare e democratizzare la produzione di energia.
Le celle a combustibile furono inventate prima del motore a scoppio, ma non riscossero interesse fino agli anni 1970, quando la NASA le utilizzò nel Programma spaziale Apollo. Sono una sorta di batteria, ma con una differenza fondamentale: la batteria tradizionale trasforma energia chimica in energia elettrica (quando l’energia chimica si esaurisce la batteria è scarica); la cella viene alimentata da un combustibile (il migliore è l’idrogeno) che trasforma in energia elettrica, modificandolo chimicamente in acqua e calore. Non ha parti in movimento, quindi è silenziosa ed è due volte e mezzo più efficiente del motore a scoppio. Una cella grande come un comune frigorifero può generare 50 kilowatt di elettricità, sufficienti per 10 famiglie. Ce ne sono più piccole e più potenti, a seconda delle necessità.
Negli USA, ma anche in Europa, supermercati, uffici, abitazioni – dove sia disponibile idrogeno per rifornirle – ne sono dotati, come impianti ausiliari contro i blackout sempre più frequenti. Ma potranno divenire produttrici esclusive di energia elettrica, quando l’idrogeno diventerà concorrenziale con i combustibili fossili. O meglio, quando si deciderà di smettere di surriscaldare il pianeta, bruciando le ultime riserve fossili, che al contrario potranno servire per usi meno grezzi della combustione, e molto più dilazionati nel tempo.
E’ chiaro tuttavia che occorre produrre molto idrogeno, e produrlo con energie rinnovabili. Una certa dose di “gigantismo” nella produzione di idrogeno sarà probabilmente necessaria, ma potranno accollarsela gli Stati, le regioni, consorzi di cooperative, ecc, senza regalare business e potere alle multinazionali dell’energia.
Dopo la fase dell’avviamento del sistema, anche piccoli produttori di idrogeno potranno entrare in pista con piccoli impianti di elettrolisi: il prototipo – a mo' di esempio – potrebbe essere un comune distributore (come quelli attuali di benzina) che con una pala eolica o con i pannelli solari produce, stocca e distribuisce idrogeno a veicoli e a una piccola rete di distribuzione per le abitazioni. Meglio se a prezzo di costo, una volta ammortizzati gli impianti.
E’ evidente che ci sarebbe una democratizzazione del sistema energia, una diffusione sul territorio, una compenetrazione con esso, anziché l’attuale sistema in mano alle multinazionali.
E’ altrettanto evidente che ogni luogo dovrebbe fare i conti con le proprie necessità, culture e potenzialità, ed integrare il sistema idrogeno con la produzione elettrica diretta, ottenuta da fonti rinnovabili: chi ha più sole e più vento avrà meno bisogno dell’intermediazione dell’idrogeno, chi ne ha poco farà il contrario.
Questo dell’energia auto prodotta sarà uno dei segmenti portanti e caratterizzanti di un nuovo modello di sviluppo realmente sostenibile ed auto centrato, basato sulle vocazioni locali, sulla filiera corta, sulla controllabilità dal basso, sulla partecipazione popolare, sul risparmio energetico, sul senso della comunità.
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