Nonostante il tema, la Seconda guerra mondiale, sia probabilmente il più frequentato e abusato della cinematografia moderna, il regista danese Martin Zandvliet sembrerebbe volersi inoltrare nel tentativo di sottrarlo al dominio culturale hollywoodiano che ne ha definitivamente imposto i canoni estetici e interpretativi da seguire per poter accedere al riconoscimento pubblico. L’occasione è allora capire se è possibile, nel 2016 e per un prodotto destinato al grande pubblico, operare questa rottura o cadere nella falsa sperimentazione provocatoria à la Lars Von Trier. Lo scetticismo è il miglior amico del critico, ma la speranza è dura a morire nella cinematografia, e allora il tentativo vale una visione.
Il film racconta una vicenda poco nota ma in realtà paradigmatica degli orrori della guerra: nella Danimarca appena liberata dal nazismo, gruppi di militari tedeschi ancora prigionieri vengono utilizzati per sminare la costa occidentale del paese, riempita di mine (circa due milioni) nella previsione dello sbarco alleato che invece avvenne come noto in Normandia. Agli ordini del sergente Rasmussen (Roland Mǿller), un gruppo di adolescenti tedeschi si troverà a sopportare l’odio della popolazione danese, e con l’ingrato compito di sminare manualmente migliaia di mine di un tratto di costa.
Il film racconta uno dei necessari epiloghi di ogni guerra: l’odio della popolazione verso lo straniero appartenente alla nazione nemica. Un tema difficile da raccontare senza una doverosa dose di realismo cinico ma onesto. L’inizio del film fa in effetti ben sperare. Il rancore, trasversale ai militari e alla popolazione danese, si scaglia senza cedimenti morali verso gli ex militari tedeschi, anche verso quei ragazzini oggettivamente senza colpe specifiche ma comunque incarnazione del male nazista. Non si tratta di raccontare un dover essere storico che dovrebbe discernere tra le responsabilità dei dirigenti e quelle di una popolazione mandata allo sbaraglio della guerra. Si tratta di raccontare le cose così come sono avvenute, e nel 1945 il tedesco era, inequivocabilmente, equiparato al nazista. L’odio è duro, i trattamenti dei militari sfiorano, e a volte superano, la tortura. L’inizio promettente cede però il passo alla morale, e nella seconda parte il film prende una piega sbagliata. Il sergente poco a poco tramuta l’avversione al tedesco in complicità verso quelli che sono, in fin dei conti, solamente dei ragazzini incolpevoli delle atrocità del nazismo. Si rende conto dell’inumanità di tutta la vicenda, finirà col solidarizzare coi tedeschi, arrivando contestualmente a rompere con i propri superiori militari. Purtroppo questo passaggio avviene nel film in maniera troppo schematica per risultare convincente. Il parallelo tra il cinismo militare senza scrupoli morali e le sofferenze dei ragazzini tedeschi è troppo smaccato per non portare a parteggiare immediatamente per il gruppo di bambini, mentre anche la “conversione” personale del sergente, prima rigido nel suo odio e subito dopo affettivamente coinvolto coi tedeschi, avviene troppo velocemente e troppo linearmente per poter essere credibile. Detto questo, siamo comunque in presenza di un lavoro che prova a rileggere il dramma della guerra da un punto di vista opposto a quello mainstream americano, con un’asciuttezza nello stile, nei dialoghi, nelle inquadrature e nell’uso consapevole del paesaggio in un certo senso “anti-romantico” che fa onore al regista. Leggermente simile al tentativo di Terrence Malick de La sottile linea rossa, sebbene certo moralismo di Zandvliet non sia corrispondente all’onesto disincanto di Malick.
La regia rimane completamente dentro ai canoni imposti da Spielberg nella narrazione della guerra, seppure in questo caso non stiamo parlando propriamente delle riprese di una battaglia. L’uso ridondante ma, tutto sommato in questo caso, non ingombrante, della steadycam è ormai un dato acquisito del cinema di genere bellico, che andrebbe prima o poi rovesciato verso una qualche forma di “nuovo oggettivismo” che continua a mancare nel cinema; i primi piani espressivi e saturati come sineddoche di una sofferenza generale, anche qui divengono emblema di una concentrazione soggettiva che raggiunge l’obiettivo quando è usata cum grano salis, no se diventa l’unica lente attraverso cui percepire la tragedia; il ritmo serrato e confusionario che aumenta la percezione dello spettatore di essere “dentro” la battaglia e non esterno ad essa. Nonostante questo, bisogna dire che il regista non eccede mai nella riproposizione, riesce a muoversi decentemente dentro un canone stilistico affermato, e alla fine il prodotto non è da disprezzare.
Un film, per concludere, che andrebbe comunque salvato, non fosse altro che per la crudezza con cui non ha paura di affrontare la morte di giovani innocenti, emblema di una crudeltà della guerra che non può essere sottoposta a veli, pena l’inganno del regista verso lo spettatore assecondato nella sua umanità, laddove la guerra elimina ogni velo d’umanità e di moralità. Se si vuole raccontare l’abisso della guerra, bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo, non fermarsi un attimo prima come è solita fare la schiera di falsi intellettuali che popolano il mondo del cinema (e della letteratura). Il pietismo finale non rende onore ad un tentativo comunque brillante, e che dimostra come anche un tema inflazionato può essere utilizzato per fare arte e proporre un punto di vista diverso della società e della condizione umana.
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