Davanti alla morte del più grande – per definizione – la prima tentazione è quella di tacere. Di non confondersi con la massa vociante dei laudatori post mortem, gli stessi che magari lo avevano massacrato in vita perché convertito all’Islam (a suo modo, certo, come rivolta politica contro il potere Wasp e razzista, non certo come afflato religioso), renitente alla leva per la guerra in Vietnam (che pagò con tre anni di squalifica nel momento più splendente della sua vitalità fisica), boccaccia politically uncorrect su molte questioni che il perbenismo imperante imponeva di nascondere sotto il tappeto.
Di tutto questo, in questo preciso momento, stanno parlando tutti. Come se il suo giganteggiare sul ring fosse un dettaglio, anziché la chiave di volta che lo impose al mondo e gli diede diritto di parola, al contrario di quel che era sempre avvenuto per “i negri”. Vero è, altri campionissimi neri non hanno avuto il suo stesso atteggiamento, né il suo impatto. Chi per una questione di tempi, chi per questioni di carattere, di opportunismo, di intelligenza. Pur riempiendo gli occhi con un talento purissimo, né Sugar Ray Robinson, né poi Marvin Hagler o Ray Leonard hanno mai “fatto opinione”, dividendo ed entusiasmando in misura sempre eccedente.
Cassius-Muhammad sì. Voleva cambiare il mondo spezzando il razzismo, e c’è riuscito perché a una classe superiore univa un rigore morale notevole, al punto da pagare con una carriera spezzata nel suo momento migliore il rifiuto di comportarsi da “zio Tom”. Lui era un rivoltoso nato.
Ha cambiato la storia dello sport, anche. E in queste ore se ne parlerò poco e male. Prima di lui i pesi massimi, gli atleti alti e larghi, qualsiasi sport praticassero, erano visti e trattati come puri accumulatori di potenza e resistenza ai colpi. Dei carriarmati in sembianze umanoidi, secondo il più trito immaginario militarista e fascista, eredità di una mai sepolta stupidità condensata nella fisiognomica.
Clay-Alì aveva la velocità di un peso medio di grande livello, un’eleganza di movimenti da ballerino classico, un’intelligenza tattica pari solo a quella politico-civile che mostrava prima e dopo ogni incontro. Era il primo pugile che parlava e non si faceva parlare addosso, in tempi in cui – per atleti anche di altri sport meno devastanti – ancora imperava un frasario minimo da “ciao mamma, sono contento di essere arrivato primo” o “d’aver fatto gol”. Un artista nel corpo di un combattente indomabile.
Con lui sono saltati molti parametri considerati “naturali”. Per esempio un calciatore o un velocista che non poteva esser troppo alto, altrimenti sarebbe stato scoordinato e lento. Quel che in lui era talento puro divenne una qualità allenabile per tutti gli altri. Magari non sarebbero stati dei campionissimi, ma di certo sarebbero stati grandi atleti. Fece saltare d’un tratto criteri selettivi secolari. Prima di lui un Briegel non avrebbe mai corso con un pallone tra i piedi, un Pogba sarebbe stato scartato già a livello di giovanissimi, un Husain Bolt sarebbe stato avviato alla pallacanestro o alla pallavolo, ecc.
Difficile ignorare un tipo così, insomma. Difficile trovare oggi qualcuno che gli somigli almeno un po’...
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