Dicevano i vecchi comunisti che le analisi elettorali, quelle serie, si fanno basandosi sui voti assoluti. Fedeli a questo principio rimandiamo ogni ragionamento più complessivo a quando saranno termite le operazioni di scrutinio più lente del mondo e ci concentriamo su alcuni dati politici che ci sembrano particolarmente significativi, primo su tutti la crisi del renzismo.
Al di là delle considerazioni sul numero di candidati sindaco arrivati al ballottaggio nei comuni più importanti, è infatti l’emorragia di voti che ha colpito il PD il dato su cui bisognerà aprire un ragionamento nelle settimane a venire, soprattutto nell’ottica del voto referendario di ottobre. Ma come direbbero alla neuro, visto che mancano una manciata di sezioni, diamo i numeri!
A Milano il PD nel 2011 aveva preso 170.551 voti (28,64%), oggi si ferma a 144.329 (28,96%). A Torino è sceso da 138.103 voti (34,5%) a 104.818 (29,81%). A Bologna da 72.335 voti (38,8) a 59.792 (35,43). A Napoli da 68.018 (16,59%) a 38.198 (11,77%). Nella capitale, dove si era votato nel 2013, il PD è invece passato da 267.605 (26,26%) a 190.737 (17,16%). Complessivamente parliamo di 178.738 voti in meno, non proprio bruscolini. Il dato però si fa più significativo se confrontiamo il voto di ieri con la performance renziana alle europee. Infatti, se è vero che le due tornate elettorali non sono propriamente sovrapponibili è anche vero che nel 2014 il premier si era appena insediato e le europee rappresentarono probabilmente l’apice della sua luna di miele con l’opinione pubblica nazionale.
Sempre riferendoci alle cinque città prese in esame, il PD portò a casa in quell’occasione 1.186.378 voti contro i 537.874 attuali, ben 648.504 voti in più... oltre il doppio. Un dato che fa ben sperare per ottobre, quando si giocherà quella che Renzi stesso ha definito “la madre di tutte le battaglie”. L’altro dato significativo, anche questo ormai certo, è quello che riguarda l’astensione, cresciuta del 5% a livello nazionale e che ha portato anche i comuni del nord ai livelli romani e del centro-sud. Unica eccezione significativa è stata proprio quella di Roma dove, senza dover aspettare l’analisi dei flussi, è facile immaginare che abbia giocato l’effetto trascinamento del voto ai 5 stelle, passati in soli tre anni da 130mila a 438mila voti.
Chi invece scompare (ma anche su questo torneremo più diffusamente) è l‘asinistra radicale (quella con l’alfa privativo) impegnata ovunque a riproporre l’ennesimo rassemblement elettoralista. Il dato più significativo da questo punto di vista viene ancora da Roma, dove Fassina e soci raggranellano 55.355 voti (4,46%) la dove solo tre anni fa Sel e Repubblica Romana (le aree confluite nella lista dell’ex responsabile economico del PD) potevano contare complessivamente su 90.553 voti (8,5%), il che dovrebbe tradursi nella “conquista” di una poltrona da consigliere comunale che, a buon bisogno, si accaparrerà un candidato proveniente da Sel. Insomma, l’ennesimo esempio di fine strategia politica a cui ci hanno abituato da anni PRC e PdCI.
Ci sarebbe poi la questione del polo lepenista, della faida interna al centrodestra, dei risultati dell’estrema destra e, soprattutto, dell’egemonia dei 5 stelle sull’elettorato di protesta, ma su questo, come abbiamo scritto all’inizio, torneremo con calma quando sarà possibile scorporare ed incrociare i dati territorialmente. Per adesso ci conforta questa crisi di consenso di Renzi e del PD, il dato che più di tutti auspicavamo.
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