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06/06/2016

Vertigini di letteratura proletaria parte seconda: L’Inverno del nostro scontento, di John Steinbeck

Viviamo in un mondo fondato sull’illusione. John Steinbeck è l’autore statunitense che più di ogni altro ha contribuito a demolire le fondamenta di questa illusione mitopoietica. L’inganno originario che ci vuole parte di un sistema corrotto ma perfettibile, con dei valori presupposti in ultima analisi invalicabili, con una sua morale di fondo, fondato sulla possibilità individuale. Ogni opera di Steinbeck è volta a smantellare i miti che avvolgono una certa “idea di capitalismo”. Se nelle opere capitali come Furore o Uomini e topi l’indagine era volta a sottrarre il proletariato da ogni illusione accomodante, l’ultimo suo romanzo, L’Inverno del nostro scontento, smaschera il significato della morale borghese, giungendo alla sua naturale conclusione: non esiste alcuna morale, men che meno alcuna etica possibile: i soldi sono l’unico valore sociale spirituale.


Il romanzo narra la storia semplice di Ethan Allan Hawley, un tempo appartenente ad un’antica famiglia di balenieri, successivamente proprietario di un negozio alimentare, e in ultimo – dopo aver perso la proprietà dell’attività – commesso del suo stesso (ex) negozio, alle dipendenze di un immigrato siciliano arricchito. Una vita “normale”, con amicizie “normali” e una famiglia “normale”, su cui però grava la “colpa” di non raggiungere quel prestigio dato dal denaro in una società del “benessere” e del “consumo” che si va strutturando negli Usa post Seconda guerra mondiale. Un benessere “alla portata di tutti”. Ethan arriva tranquillamente a fine mese, ha una bella moglie, due figli, amicizie rispettabili. Eppure il peso del mancato salto di qualità gli viene fatto notare in ogni momento, senza apparente cattiveria: dai familiari, dagli amici, dai conoscenti, la vita di Ethan è caratterizzata da un “vorrei ma non posso” che poco a poco dilania interiormente il protagonista. Una presa d’atto di una condizione sociale e umana non all’altezza dei tempi. Per ottenere tutto ciò che la nuova società del “benessere diffuso” mette a portata di mano, Ethan dovrà ordire una serie di imbrogli e tradimenti, in primo luogo verso se stesso, che lo porteranno infine a raggiungere quello status tanto ambito, al prezzo però di un degradamento etico che lo porterà sull’orlo del suicidio.

La perdita dell’innocenza, topos letterario che in Steinbeck raggiunge il suo acme, procede di pagina in pagina senza fuochi d’artificio narrativi tipici di certa letteratura “impegnata”. Due terzi del libro narrano di un’esistenza tranquilla, noiosa, e infatti il romanzo procede quasi stancamente raccontando l’apparente trita normalità di un destino né umile né stravagante. Eppure, cova sin dalle prime pagine l’insoddisfazione tra la realtà e un’aspirazione economica dettata da standard imposti dalla morale pubblica. Lentamente Ethan inizia a cedere di fronte alle pressioni ambientali, cede al cospetto della sua morale che lo vuole onesto cittadino, irreprensibile di fronte alla legge e ad un’etica pubblica sacralizzata o solamente feticizzata. Architetta stratagemmi di arricchimento, che alla fine gli frutteranno la riappropriazione del negozio e molto altro ancora. Ma il peso di questo stravolgimento sarò a quel punto decisivo sulla sua personalità. Un peso che però non lo porterà alle estreme conseguenze. L’adeguamento sarà allora completo, svelando il senso di una società fondata sulla corruzione inevitabile, sull’imbroglio come stile e come metodo di vita.

Non c’è innocenza possibile nel capitalismo. La corruzione morale è endemica, sostanziale, ineliminabile, perché esclusivamente tramite questa è possibile mettere in atto l’american way of life, il sogno americano della riuscita personale, dell’arricchimento individuale. Non c’è arricchimento senza corruzione, e non c’è corruzione se non alle spalle di un altro individuo sconfitto dal processo di selezione antropologica capitalista. “Rischiare” e “mettersi in gioco” sono locuzioni che acquisiscono concretezza solo quando sostanziate dalla disponibilità personale alla putrefazione valoriale. Senza questa, tutto il castello ideologico della possibilità crolla inesorabilmente.
Questa la parabola del protagonista, questa la parabola di un sistema sociale atto a selezionare tipi umani. La grandezza di Steinbeck sta proprio nel raccontare questo percorso senza infingimenti, senza alcun cedimento a presunte “eroicità” o, al contrario, a tare psicologiche individuali del protagonista. Potrebbe essere chiunque di noi Ethan Allan Hawley, e siamo tutti noi, disposti alla corruzione morale perché inseriti in un sistema fondato su questa. Pensare di essere innocenti in un mondo che ha perso l’innocenza dall’origine è l’estrema illusione capitalistica con cui dobbiamo farei conti. L’uomo ha perso la sua innocenza, tutti siamo coinvolti in questo declino. Ritrovare l’innocenza perduta è compito che non potrà effettuarsi se non dopo una necessaria demolizione di una società fondata sull’a-valorialità come modello evolutivo.

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