di Michele Paris
La telefonata
dello scorso fine settimana tra il presidente eletto degli Stati Uniti,
Donald Trump, e la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha portato
all’ordine del giorno la più che probabile evoluzione in senso negativo
dei rapporti tra Washington e Pechino che si prospetta dopo
l’insediamento alla Casa Bianca della nuova amministrazione
Repubblicana.
Anche se in molti, dagli USA alla Cina, hanno
provato a giustificare il gesto provocatorio come un errore di
valutazione dovuto all’inesperienza di Trump in politica estera o,
quanto meno, un innocente conversazione in occasione dell’elezione di
quest’ultimo, il gesto sembra essere stato tutt’altro che casuale ed è
anzi perfettamente in linea con l’attitudine del miliardario newyorchese
verso la seconda potenza economica mondiale.
Trump e la
presidente taiwanese del Partito Progressista Democratico (DPP), che
promuove cautamente la causa indipendentista dell’isola, si sono sentiti
per telefono venerdì scorso in quello che è stato il primo colloquio
diretto ufficiale tra i leader dei due paesi a partire dal 1979.
In
questa data, USA e Taiwan avevano interrotto formalmente le relazioni
diplomatiche a causa del riconoscimento della Cina da parte americana,
principalmente in funzione anti-sovietica. I rapporti, regolati dal
cosiddetto “Taiwan Relations Act”, firmato dal presidente Carter nel
1979, sarebbero comunque proseguiti in maniera non ufficiale,
sanzionando una voluta ambiguità che non ha evitato manifestazioni di
scontento da parte di Pechino, soprattutto in occasione dei
trasferimenti di armi da Washington a Taipei.
Ufficialmente,
però, gli Stati Uniti hanno sempre abbracciato la politica di “una sola
Cina” e le pratiche diplomatiche seguite da tutte le amministrazioni in
quasi quattro decenni hanno evitato provocazioni come quella che ha
visto protagonista Trump nei giorni scorsi.
La rottura della
pratica consolidata nei rapporti con Cina e Taiwan da parte del
neo-presidente americano è apparsa ancora più grave alla luce dei
probabili contenuti della telefonata con Tsai Ing-wen. Quest’ultima ha
affermato che il colloquio non è consistito semplicemente nelle solite
formalità che accompagnano un’elezione, ma ha toccato questioni di
natura economica e strategica in relazione ai rapporti bilaterali e agli
eventi nel continente asiatico.
I tentativi dell’entourage di
Trump di minimizzare la portata della conversazione sono stati ad ogni
modo smentiti dallo stesso presidente eletto. Se di avventatezza si
fosse trattato, Trump non avrebbe ad esempio scritto una serie di
“tweet” nel fine settimana diretti contro la Cina. In uno di questi si è
chiesto ironicamente se Pechino abbia mai chiesto il parere americano
prima di “svalutare la propria moneta” o di “costruire un imponente
sistema militare nel Mar Cinese Meridionale”.
Il Washington Post
ha inoltre scritto che la telefonata non è stata un evento
estemporaneo, bensì una mossa studiata, frutto di “mesi di preparazioni e
considerazioni da parte dei consiglieri di Trump su una nuova strategia
da tenere nei confronti di Taiwan”.
Da
un certo punto di vista, Trump ha messo in luce l’ipocrisia
dell’atteggiamento ufficiale degli Stati Uniti nei confronti della
questione di Taiwan, giudicando “interessante” il modo in cui Washington
“venda armi per miliardi di dollari” a Taipei quando il nuovo inquilino
della Casa Bianca “non può accettare una telefonata di congratulazioni”
dal presidente di questo paese.
Tuttavia, l’apparente
predisposizione di Trump a trasgredire le regole di una politica basata
puramente sulla forma a favore di misure e iniziative concrete che
vadano al cuore delle questioni, porta con sé in questo caso la minaccia
di un aggravamento delle tensioni già vicine al livello di guardia tra
Stati Uniti e Cina.
A ben vedere, l’ultima performance di Trump
in merito a Taiwan è la logica conseguenza delle promesse fatte in
campagna elettorale per cercare di colpire gli interessi economici e
strategici di Pechino, come quella di applicare pesantissimi dazi sulle
esportazioni cinesi dirette verso il mercato americano.
Tutto ciò
prospetta un ulteriore peggioramento dei rapporti tra Washington e
Pechino nel prossimo futuro. L’aggressività, per ora solo verbale, di
Trump si innesta peraltro sulla condotta tenuta dall’amministrazione
Obama fin dall’annuncio della cosiddetta “svolta” asiatica che ha
comportato, negli ultimi anni, una escalation di dichiarazioni
provocatorie e iniziative diplomatico-militari in Asia sud-orientale per
accerchiare la Cina e cercare di contenerne in tutti modi l’ascesa.
L’aspetto
preoccupante delle prese di posizione di Trump è che le provocazioni
dell’amministrazione Democratica uscente, malgrado abbiano già fatto
aumentare il rischio di uno scontro militare tra le due potenze
nucleari, minacciano di moltiplicarsi rapidamente. Una simile evoluzione
si intravede dalle dichiarazioni di vari “falchi” coinvolti nel
processo di transizione verso la Casa Bianca o candidati ad assumere
incarichi di rilievo nel nuovo governo Trump.
Uno di questi è
John Bolton, ex ambasciatore alle Nazioni Unite durante la presidenza
Bush e preso in considerazione per la carica di segretario di Stato.
Bolton ha recentemente auspicato una “scossa” nelle relazioni con
Pechino, ovviamente nel senso di una maggiore aggressività americana nel
contrastare l’espansione cinese in Asia e non solo. L’ex “speaker”
della Camera del Congresso americano, Newt Gingrich, in un’apparizione
nella mattinata di domenica su FoxNews, ha invece assicurato che Trump intende “rompere” con l’atteggiamento troppo “timido” del dipartimento di Stato.
A
fianco di Trump, in definitiva, ci sono consiglieri e aspiranti a ruoli
di governo che hanno denunciato e continuano a denunciare come troppo
prudente la condotta di Obama verso la Cina e la sua espansione
economica e militare.
Che Trump intenda muoversi in questa
direzione è risultato chiaro anche dal mancato coordinamento con il
dipartimento di Stato nel prendere contatti con la presidente di Taiwan e
dalla reazione sorpresa e irritata della Casa Bianca, da dove è stato
confermato il rispetto della politica di “una sola Cina” e l’interesse
per la stabilità dei rapporti tra Pechino e Taipei.
Se solo lo
scorso anno l’amministrazione Obama aveva creato parecchi malumori
all’interno del regime cinese in seguito all’approvazione di una
fornitura di armi a Taiwan per quasi due miliardi di dollari, una parte
della classe dirigente americana ha tutto l’interesse a evitare il
precipitare delle relazioni con la Cina in questo frangente. Alcune
delle ragioni di questa cautela sono state spiegate ad esempio da una
dichiarazione riportata dal Financial Times del presidente
della Camera di Commercio Americana in Cina, James Zimmerman, il quale
ha avvertito che “il business USA ha bisogno di certezze e stabilità”.
Le
preoccupazioni sono alimentate anche dalla comprensibile reazione della
Cina, da dove Taiwan è considerata una provincia ribelle che finirà
prima o poi per tornare sotto il controllo della madrepatria. Pechino ha
presentato una protesta formale al governo americano, mentre numerosi
sono stati i commenti alla vicenda apparsi sugli organi ufficiali di
stampa.
Dagli
editoriali che hanno giudicato la telefonata come un “errore” dovuto
all’inesperienza di Trump ad avvertimenti circa la spirale negativa in
cui potrebbe entrare la relazione con Washington a partire da gennaio,
la risposta cinese ha mostrato come ci sia parecchia apprensione per il
nuovo governo che si insedierà a Washington.
Una certa
preoccupazione l’ha espressa proprio il presidente cinese, Xi Jinping,
nel corso di un incontro nella giornata di venerdì con Henry Kissinger,
architetto della distensione tra USA e Cina durante la presidenza Nixon.
A conferma dell’allarme suonato a Pechino dopo il voto dell’8 novembre
scorso, Xi ha affermato che il suo governo “sta seguendo attentamente la
situazione [a Washington]”, dal momento che i rapporti bilaterali sono
entrati in quella che ha definito “una fase critica”.
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