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06/12/2016

Il fattore Trump tra Cina e Taiwan

di Michele Paris

La telefonata dello scorso fine settimana tra il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, e la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, ha portato all’ordine del giorno la più che probabile evoluzione in senso negativo dei rapporti tra Washington e Pechino che si prospetta dopo l’insediamento alla Casa Bianca della nuova amministrazione Repubblicana.

Anche se in molti, dagli USA alla Cina, hanno provato a giustificare il gesto provocatorio come un errore di valutazione dovuto all’inesperienza di Trump in politica estera o, quanto meno, un innocente conversazione in occasione dell’elezione di quest’ultimo, il gesto sembra essere stato tutt’altro che casuale ed è anzi perfettamente in linea con l’attitudine del miliardario newyorchese verso la seconda potenza economica mondiale.

Trump e la presidente taiwanese del Partito Progressista Democratico (DPP), che promuove cautamente la causa indipendentista dell’isola, si sono sentiti per telefono venerdì scorso in quello che è stato il primo colloquio diretto ufficiale tra i leader dei due paesi a partire dal 1979.

In questa data, USA e Taiwan avevano interrotto formalmente le relazioni diplomatiche a causa del riconoscimento della Cina da parte americana, principalmente in funzione anti-sovietica. I rapporti, regolati dal cosiddetto “Taiwan Relations Act”, firmato dal presidente Carter nel 1979, sarebbero comunque proseguiti in maniera non ufficiale, sanzionando una voluta ambiguità che non ha evitato manifestazioni di scontento da parte di Pechino, soprattutto in occasione dei trasferimenti di armi da Washington a Taipei.

Ufficialmente, però, gli Stati Uniti hanno sempre abbracciato la politica di “una sola Cina” e le pratiche diplomatiche seguite da tutte le amministrazioni in quasi quattro decenni hanno evitato provocazioni come quella che ha visto protagonista Trump nei giorni scorsi.

La rottura della pratica consolidata nei rapporti con Cina e Taiwan da parte del neo-presidente americano è apparsa ancora più grave alla luce dei probabili contenuti della telefonata con Tsai Ing-wen. Quest’ultima ha affermato che il colloquio non è consistito semplicemente nelle solite formalità che accompagnano un’elezione, ma ha toccato questioni di natura economica e strategica in relazione ai rapporti bilaterali e agli eventi nel continente asiatico.

I tentativi dell’entourage di Trump di minimizzare la portata della conversazione sono stati ad ogni modo smentiti dallo stesso presidente eletto. Se di avventatezza si fosse trattato, Trump non avrebbe ad esempio scritto una serie di “tweet” nel fine settimana diretti contro la Cina. In uno di questi si è chiesto ironicamente se Pechino abbia mai chiesto il parere americano prima di “svalutare la propria moneta” o di “costruire un imponente sistema militare nel Mar Cinese Meridionale”.

Il Washington Post ha inoltre scritto che la telefonata non è stata un evento estemporaneo, bensì una mossa studiata, frutto di “mesi di preparazioni e considerazioni da parte dei consiglieri di Trump su una nuova strategia da tenere nei confronti di Taiwan”.

Da un certo punto di vista, Trump ha messo in luce l’ipocrisia dell’atteggiamento ufficiale degli Stati Uniti nei confronti della questione di Taiwan, giudicando “interessante” il modo in cui Washington “venda armi per miliardi di dollari” a Taipei quando il nuovo inquilino della Casa Bianca “non può accettare una telefonata di congratulazioni” dal presidente di questo paese.

Tuttavia, l’apparente predisposizione di Trump a trasgredire le regole di una politica basata puramente sulla forma a favore di misure e iniziative concrete che vadano al cuore delle questioni, porta con sé in questo caso la minaccia di un aggravamento delle tensioni già vicine al livello di guardia tra Stati Uniti e Cina.

A ben vedere, l’ultima performance di Trump in merito a Taiwan è la logica conseguenza delle promesse fatte in campagna elettorale per cercare di colpire gli interessi economici e strategici di Pechino, come quella di applicare pesantissimi dazi sulle esportazioni cinesi dirette verso il mercato americano.

Tutto ciò prospetta un ulteriore peggioramento dei rapporti tra Washington e Pechino nel prossimo futuro. L’aggressività, per ora solo verbale, di Trump si innesta peraltro sulla condotta tenuta dall’amministrazione Obama fin dall’annuncio della cosiddetta “svolta” asiatica che ha comportato, negli ultimi anni, una escalation di dichiarazioni provocatorie e iniziative diplomatico-militari in Asia sud-orientale per accerchiare la Cina e cercare di contenerne in tutti modi l’ascesa.

L’aspetto preoccupante delle prese di posizione di Trump è che le provocazioni dell’amministrazione Democratica uscente, malgrado abbiano già fatto aumentare il rischio di uno scontro militare tra le due potenze nucleari, minacciano di moltiplicarsi rapidamente. Una simile evoluzione si intravede dalle dichiarazioni di vari “falchi” coinvolti nel processo di transizione verso la Casa Bianca o candidati ad assumere incarichi di rilievo nel nuovo governo Trump.

Uno di questi è John Bolton, ex ambasciatore alle Nazioni Unite durante la presidenza Bush e preso in considerazione per la carica di segretario di Stato. Bolton ha recentemente auspicato una “scossa” nelle relazioni con Pechino, ovviamente nel senso di una maggiore aggressività americana nel contrastare l’espansione cinese in Asia e non solo. L’ex “speaker” della Camera del Congresso americano, Newt Gingrich, in un’apparizione nella mattinata di domenica su FoxNews, ha invece assicurato che Trump intende “rompere” con l’atteggiamento troppo “timido” del dipartimento di Stato.

A fianco di Trump, in definitiva, ci sono consiglieri e aspiranti a ruoli di governo che hanno denunciato e continuano a denunciare come troppo prudente la condotta di Obama verso la Cina e la sua espansione economica e militare.

Che Trump intenda muoversi in questa direzione è risultato chiaro anche dal mancato coordinamento con il dipartimento di Stato nel prendere contatti con la presidente di Taiwan e dalla reazione sorpresa e irritata della Casa Bianca, da dove è stato confermato il rispetto della politica di “una sola Cina” e l’interesse per la stabilità dei rapporti tra Pechino e Taipei.

Se solo lo scorso anno l’amministrazione Obama aveva creato parecchi malumori all’interno del regime cinese in seguito all’approvazione di una fornitura di armi a Taiwan per quasi due miliardi di dollari, una parte della classe dirigente americana ha tutto l’interesse a evitare il precipitare delle relazioni con la Cina in questo frangente. Alcune delle ragioni di questa cautela sono state spiegate ad esempio da una dichiarazione riportata dal Financial Times del presidente della Camera di Commercio Americana in Cina, James Zimmerman, il quale ha avvertito che “il business USA ha bisogno di certezze e stabilità”.

Le preoccupazioni sono alimentate anche dalla comprensibile reazione della Cina, da dove Taiwan è considerata una provincia ribelle che finirà prima o poi per tornare sotto il controllo della madrepatria. Pechino ha presentato una protesta formale al governo americano, mentre numerosi sono stati i commenti alla vicenda apparsi sugli organi ufficiali di stampa.

Dagli editoriali che hanno giudicato la telefonata come un “errore” dovuto all’inesperienza di Trump ad avvertimenti circa la spirale negativa in cui potrebbe entrare la relazione con Washington a partire da gennaio, la risposta cinese ha mostrato come ci sia parecchia apprensione per il nuovo governo che si insedierà a Washington.

Una certa preoccupazione l’ha espressa proprio il presidente cinese, Xi Jinping, nel corso di un incontro nella giornata di venerdì con Henry Kissinger, architetto della distensione tra USA e Cina durante la presidenza Nixon. A conferma dell’allarme suonato a Pechino dopo il voto dell’8 novembre scorso, Xi ha affermato che il suo governo “sta seguendo attentamente la situazione [a Washington]”, dal momento che i rapporti bilaterali sono entrati in quella che ha definito “una fase critica”.

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