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16/12/2016

Ricapitalizzare e punire: Unicredit fa fuori 14.000 posti di lavoro e resta col futuro incerto

Una cosa è certa nelle ristrutturazioni bancarie. I sindacati confederali finiscono sempre per adeguarsi. Come hanno fatto per il Monte dei Paschi quando, a fronte di un piano di ricapitalizzazione che non aveva senso (tanto che la vigilanza Bce l’ha bocciato),  Cgil-Cisl e Uil hanno firmato l’accorso su oltre 2000 esuberi. Insomma, se le operazioni di capitalizzazione sono rischiose, spesso anche surreali, il tetro sindacato della Camusso, assieme a quello del ben più pittoresco Barbagallo, e la Cisl garantiscono, assieme, comunque le loro firme sui tagli al personale. Certo, il costo sociale, lavorativo ed economico delle ristrutturazioni bancarie finisce per sparire in un mare di chiacchiere che hanno l’effetto, spontaneo, di neutralizzare un problema sistemico in più piccoli focolai di conflitto (sui rimborsi dei risparmiatori, sulla mobilità o meno degli esuberi, sulle competenze della vigilanza). Ma se guardiamo tutta la filiera degli effetti di una ristrutturazione che è permanente perchè le tecnologie di trasferimento del denaro sono dispositivi tecnomorfi di trasformazione della società non tanto mezzi di pagamento, vediamo come gli esiti siano già impressionanti. Dal numero di posti di lavoro persi, dal 2007 a oggi, degli sportelli, alla quantità di denaro andato in fumo dallo stesso periodo, dalle restrizioni all’accesso al credito per una vasta gamma di soggetti sociali. Tutto quello che, in contemporanea alla crisi, è stato costruito – dal credito e al banking online, ai soggetti nuovi che si stanno affacciando (dal peer-to-peer alla stessa Amazon) ma anche alla finanza di rischio dal basso (dalle piattaforme di trading alle scommesse) – non compensa oppure non è paragonabile a quanto perso.

Il punto è che, comunque vada, questa è la dimensione che ha un futuro nella gestione del risparmio e nella creazione di posti lavoro (molto diversi dal passato). Ed è una dimensione deregolata, deterritorializzata, alla testa di innovazioni tecnologiche e reticolare che rende più difficile una regulation giuridica classica, di quelle da riformismo di sinistra, e che deve essere ben interpretata da forme di conflitto, auspicabili, che magari emergeranno anche in quel campo. Ma torniamo a Unicredit.

La notizia è che all’aumento di capitale annunciato, 13 miliardi, corrisponde un esubero di 14.000 posti di lavoro entro il 2019. Come sempre, tanto una Camusso o un Barbagallo si troveranno comunque, gli esuberi sono certi. L’aumento di capitale ancora no mentre i crediti in sofferenza dovrebbero essere smaltiti, attraverso speciali “veicoli” finanziari, nella misura  di quasi 18 miliardi di euro. Gennaio sarà il mese decisivo per capire se l’aumento di capitale, deciso dai vertici di Unicredit, troverà sufficienti sottoscrittori. Diversi analisti, tra cui della City, sono ottimisti. Va però notato un passaggio: la testa di migliaia di lavoratori è, non è certo una novità ma bisogna sempre evidenziare il passaggio, la precondizione necessaria per un aumento di capitale ed una reazione positiva della borsa. Senza la perdita di posti di lavoro non se ne ragiona nemmeno. Figuriamoci, oltretutto, se i nuovi padroni di Unicredit sono francesi e desiderosi di applicare i criteri della redditività coloniale quanto prima.

Quello su cui si ragiona nei mondi finanziari pero’, e ci si è soffermato anche Nils Pratley del Guardian, non è tanto l’aumento di capitale. Che dovrebbe trovare soddisfazione nei termini pensati. Quanto le prospettive di ristrutturazione di un sistema, quello bancario italiano, che fa parte di un sistema paese le cui prospettive continuano ad essere di declino. Per quanto il nuovo management di Unicredit faccia riferimento a Parigi il corpo è in Italia, l’Italia resta in una prospettiva di crisi e il problema, su tanti piani, non sarà secondario. Certo, si saldasse il management francese di Unicredit con Vivendi, nel momento in cui quest’ultima acquisisce Mediaset, avremmo una forza bancario-mediatica notevole sulla politica italiana proveniente direttamente da Parigi. Ma questa è solo una ipotesi di scenario. Ipotesi che fa capire che questo paese il lato aspro della globalizzazione, per quanto le portate servite fino ad adesso siano state indigeste, deve ancora assaggiarlo. E ci sono già settori della finanza nazionale che pensano che i francesi siano entrati fin troppo tra gli asset strategici nazionali (esempio Unicredit, Generali, Intesa San Paolo, intesi come sistema finanziario nazionale,  sono un asset senza il quale è difficile parlare di autonomia e libertà di scelta a livello di politiche nazionali). Intanto restano i 14.000 esuberi sul piatto, quelli sono una stella polare, e la Popolare Vicenza ne dichiara 1500, aggiungiamoci quelli firmati, con Cgil sull’attenti, su MPS (2200) e vediamo che il settore bancario perde risparmio, investimento e posti di lavoro. Con il new banking prima citato che non appare in grado di compensare questi numeri al momento. L’Italia in questo modo sperimenta sulla propria pelle una dinamica nota: le ristrutturazioni del lavoro sono fortemente tecnologiche e hanno un saldo occupazionale negativo. E soprattutto arrivano da un altrove politicamente inafferrabile.

 Alla fine che dire: nel 2012 il ministero del tesoro britannico commissionò una seria inchiesta su come le ristrutturazioni tecnologiche, le accelerazioni di processo e di prodotto, incidessero nella finanza e nel banking.

Merita una lettura perché, pochi anni dopo, si vede che è questo tipo di mondo che detta i ritmi delle crisi bancarie. Si pensi che l’High-Frequency Trading ancora nel 2008 era ad uno stato, per come è oggi, quasi primitivo. Eppure, oltre a vedere botti come Lehman, allora si scrivevano testi scientifici che si domandavano perché ci fossero così tante crisi bancarie. Oggi le dinamiche di accelerazione, tecnologiche e finanziarie, continuano a ristrutturare quel mondo in maniera ancor più accentuata di allora. E i cambiamenti nel mondo bancario sono di una importanza paragonabile a quelli che, a suo tempo, sono avvenuti nella fabbrica fordista.

Scenario vasto, pericoloso, complesso, abitato da forze poderose quanto inquiete perché a caccia di rendimenti in tutto il globo, in ogni momento. Scenario al quale la politica sa ripondere solo adeguandosi al peggio, e il governo Gentiloni-Padoan non tradirà in questo, o con trovate estemporanee come il referendum consultivo sull’euro. Una proposta che, messa come appare oggi, rischierebbe di far evaporare questo paese, forza dell’ostilità della finanza globale, come una candela gettata nell’altoforno acceso. In questo modo ci si avvicina verso un anno nuovo che, immancabilmente, porterà macerie sia attese che inattese. Mentre ciò che si autoproclama politica si racchiude attorno al solito caldo rito magico dell’ultimo quarto di secolo: la modifica della legge elettorale.

Redazione, 15 dicembre 2016

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