Una cosa è certa nelle ristrutturazioni bancarie. I sindacati
confederali finiscono sempre per adeguarsi. Come hanno fatto per il
Monte dei Paschi quando, a fronte di un piano di ricapitalizzazione che
non aveva senso (tanto che la vigilanza Bce l’ha bocciato), Cgil-Cisl e
Uil hanno firmato l’accorso su oltre 2000 esuberi. Insomma, se le
operazioni di capitalizzazione sono rischiose, spesso anche surreali, il
tetro sindacato della Camusso, assieme a quello del ben più pittoresco
Barbagallo, e la Cisl garantiscono, assieme, comunque le loro firme sui
tagli al personale. Certo, il costo sociale, lavorativo ed economico
delle ristrutturazioni bancarie finisce per sparire in un mare di
chiacchiere che hanno l’effetto, spontaneo, di neutralizzare un problema
sistemico in più piccoli focolai di conflitto (sui rimborsi dei
risparmiatori, sulla mobilità o meno degli esuberi, sulle competenze
della vigilanza). Ma se guardiamo tutta la filiera degli effetti di una
ristrutturazione che è permanente perchè le tecnologie di trasferimento
del denaro sono dispositivi tecnomorfi di trasformazione della società
non tanto mezzi di pagamento, vediamo come gli esiti siano già
impressionanti. Dal numero di posti di lavoro persi, dal 2007 a oggi,
degli sportelli, alla quantità di denaro andato in fumo dallo stesso
periodo, dalle restrizioni all’accesso al credito per una vasta gamma di
soggetti sociali. Tutto quello che, in contemporanea alla crisi, è
stato costruito – dal credito e al banking online, ai soggetti nuovi che
si stanno affacciando (dal peer-to-peer alla stessa Amazon) ma anche
alla finanza di rischio dal basso (dalle piattaforme di trading alle
scommesse) – non compensa oppure non è paragonabile a quanto perso.
Il
punto è che, comunque vada, questa è la dimensione che ha un futuro nella
gestione del risparmio e nella creazione di posti lavoro (molto diversi
dal passato). Ed è una dimensione deregolata, deterritorializzata, alla
testa di innovazioni tecnologiche e reticolare che rende più difficile
una regulation giuridica classica, di quelle da riformismo di sinistra, e
che deve essere ben interpretata da forme di conflitto, auspicabili,
che magari emergeranno anche in quel campo. Ma torniamo a Unicredit.
La
notizia è che all’aumento di capitale annunciato, 13 miliardi,
corrisponde un esubero di 14.000 posti di lavoro entro il 2019. Come
sempre, tanto una Camusso o un Barbagallo si troveranno comunque, gli
esuberi sono certi. L’aumento di capitale ancora no mentre i crediti in
sofferenza dovrebbero essere smaltiti, attraverso speciali “veicoli”
finanziari, nella misura di quasi 18 miliardi di euro. Gennaio sarà il
mese decisivo per capire se l’aumento di capitale, deciso dai vertici di
Unicredit, troverà sufficienti sottoscrittori. Diversi analisti, tra
cui della City, sono ottimisti. Va però notato un passaggio: la testa di
migliaia di lavoratori è, non è certo una novità ma bisogna sempre
evidenziare il passaggio, la precondizione necessaria per un aumento di
capitale ed una reazione positiva della borsa. Senza la perdita di posti
di lavoro non se ne ragiona nemmeno. Figuriamoci, oltretutto, se i
nuovi padroni di Unicredit sono francesi e desiderosi di applicare i
criteri della redditività coloniale quanto prima.
Quello su cui si
ragiona nei mondi finanziari pero’, e ci si è soffermato anche Nils
Pratley del Guardian, non è tanto l’aumento di capitale. Che dovrebbe
trovare soddisfazione nei termini pensati. Quanto le prospettive di
ristrutturazione di un sistema, quello bancario italiano, che fa parte
di un sistema paese le cui prospettive continuano ad essere di declino. Per quanto il nuovo management di Unicredit faccia riferimento a Parigi
il corpo è in Italia, l’Italia resta in una prospettiva di crisi e il
problema, su tanti piani, non sarà secondario. Certo, si saldasse il
management francese di Unicredit con Vivendi, nel momento in cui
quest’ultima acquisisce Mediaset, avremmo una forza bancario-mediatica
notevole sulla politica italiana proveniente direttamente da Parigi. Ma
questa è solo una ipotesi di scenario. Ipotesi che fa capire che questo
paese il lato aspro della globalizzazione, per quanto le portate servite
fino ad adesso siano state indigeste, deve ancora assaggiarlo. E ci
sono già settori della finanza nazionale che pensano che i francesi
siano entrati fin troppo tra gli asset strategici nazionali (esempio
Unicredit, Generali, Intesa San Paolo, intesi come sistema finanziario
nazionale, sono un asset senza il quale è difficile parlare di
autonomia e libertà di scelta a livello di politiche nazionali). Intanto restano i 14.000 esuberi sul piatto, quelli sono una stella
polare, e la Popolare Vicenza ne dichiara 1500, aggiungiamoci quelli
firmati, con Cgil sull’attenti, su MPS (2200) e vediamo che il settore
bancario perde risparmio, investimento e posti di lavoro. Con il new
banking prima citato che non appare in grado di compensare questi numeri
al momento. L’Italia in questo modo sperimenta sulla propria pelle una
dinamica nota: le ristrutturazioni del lavoro sono fortemente
tecnologiche e hanno un saldo occupazionale negativo. E soprattutto
arrivano da un altrove politicamente inafferrabile.
Alla fine che dire: nel 2012 il
ministero del tesoro britannico commissionò una seria inchiesta su come
le ristrutturazioni tecnologiche, le accelerazioni di processo e di
prodotto, incidessero nella finanza e nel banking.
Merita una lettura perché, pochi anni
dopo, si vede che è questo tipo di mondo che detta i ritmi delle crisi
bancarie. Si pensi che l’High-Frequency Trading ancora nel 2008 era ad
uno stato, per come è oggi, quasi primitivo. Eppure, oltre a vedere
botti come Lehman, allora si scrivevano testi scientifici che si
domandavano perché ci fossero così tante crisi bancarie. Oggi le
dinamiche di accelerazione, tecnologiche e finanziarie, continuano a
ristrutturare quel mondo in maniera ancor più accentuata di allora. E i
cambiamenti nel mondo bancario sono di una importanza paragonabile a
quelli che, a suo tempo, sono avvenuti nella fabbrica fordista.
Scenario vasto, pericoloso, complesso,
abitato da forze poderose quanto inquiete perché a caccia di rendimenti
in tutto il globo, in ogni momento. Scenario al quale la politica sa
ripondere solo adeguandosi al peggio, e il governo Gentiloni-Padoan non
tradirà in questo, o con trovate estemporanee come il referendum
consultivo sull’euro. Una proposta che, messa come appare oggi,
rischierebbe di far evaporare questo paese, forza dell’ostilità della
finanza globale, come una candela gettata nell’altoforno acceso. In
questo modo ci si avvicina verso un anno nuovo che, immancabilmente,
porterà macerie sia attese che inattese. Mentre ciò che si autoproclama
politica si racchiude attorno al solito caldo rito magico dell’ultimo
quarto di secolo: la modifica della legge elettorale.
Redazione, 15 dicembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento