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06/02/2017

Come Nixon nel ’71, gli Usa cambiano le regole del gioco. Ma senza rete...

Chi pensa che il “fenomeno Trump” sia dovuto alla faccia tosta del personaggio o alla credulità dell'elettorato non metropolitano degli Stati Uniti è condannato a non capire nulla di quanto sta accadendo a livello planetario. Al massimo, sarà invitato a “indignarsi” ogni giorno su un tema diverso, scelto con cura dall'ala “globalista” dei media mainstream, quella nostalgica dei bei tempi andati, quando ogni starnuto proveniente dagli Usa era accolto come il verbo divino.

Sul fronte opposto, quelli che ragionano solo in termini di geopolitica e sovranità nazionali sono condannati a fare i salti mortali – e neanche sempre vogliono farli – per non ritrovarsi schiacciati sugli argomenti della destra nazionalista, xenofoba, fascistoide, trumpista o lepenista per puro calcolo elettorale.

A noi sembra decisamente più sensato guardare ai processi economici e storici che stanno arrivando al pettine dopo dieci anni di crisi globale. Dieci anni in cui ogni tentativo di “ripartire”, di “rilanciare la crescita”, ecc, si è scontrato con un arresto generale della “dinamica propulsiva” del modo di produzione capitalistico, nelle forme storiche assunte nel secondo dopoguerra. Se ci si riesce ad orientare nelle modificazioni del mondo, forse si riesce anche a dire qualcosa di non preso a prestito da Repubblica o dal Tg3... Ricordiamo ancora, nonostante tutto, che nella Storia sono i processi oggettivi a sollevare o precipitare gli individui (anche e soprattutto “i capi”), non viceversa.

Alcuni articoli che aiutano a fare il punto della situazione sono comparsi negli ultimi giorni su giornali molto diversi, nessuno dei quali ascrivibile alla cosiddetta “sinistra” ufficiale (il maleodorante stagno che va dai renziani critici ai costruttori di “contenitori” senza progetto politico), ormai rassegnata alla irrilevanza politica.

Sono interventi ragionati che mettono a fuoco i tre ambiti decisivi per tracciare le coordinate e la direzione di marcia del presente.

Partiamo da quello che esamina la potenza imperialista egemone, gli Stati Uniti, e il mutamento vero in corso al vertice politico-finanziario di quel paese.

Guido Salerno Aletta, editorialista di punta di Milano Finanza, paragona le scelte politiche (economico-finanziarie, in primo luogo) che vanno maturando a Washington a quelle fatte da Richard Nixon nel 1971. Ovvero al big bang monetario con cui gli Stati Uniti misero fine al gold exchange standard, regime monetario che legava strettamente il valore del dollaro a quello dell'oro (un dollaro = un grammo d'oro), al punto da assicurare la piena convertibilità della moneta cartacea in metallo e viceversa. Con quella decisione furono cancellati gli accordi di Bretton Woods (1944) e quindi la prima forma storica della governance statunitense sull'Occidente capitalististico (il mondo era “diviso in due”, e l'antagonista era già allora il “socialismo reale” uscito da Yalta).

Con lo sganciamento, gli Usa nixoniani mantenevano un disavanzo commerciale enorme con il resto del mondo, ma non avevano più bisogno di una copertura aurea; il dollaro – con la sostanziale scomparsa della sterlina dai mercati internazionali – restava infatti l'unica moneta di riserva per tutto il pianeta, oltre ad essere la moneta di misura per tutti gli scambi commerciali (a cominciare dalle materie prime) e moneta interna agli States. In cambio, gli Usa rifornivano di liquidità in dollari mercati finanziari bisognosi di una “moneta sicura”. In pratica, come si è detto per quasi mezzo secolo, gli Usa stampavano carta per comprare merci (e governi). Erano gli unici a poterlo fare senza correre il rischio di una svalutazione incontrollabile, perché la loro credibilità economica era comunque forte, anche se meno della loro preponderanza militare.

Una condizione invidiabile e invidiata (non si contano i saggi scritti sul cosiddetto “signoraggio”; noi consigliamo di rileggere invece il testo quasi profetico scritto da Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek), che ha consentito di “esportare i problemi economici americani” nel resto del mondo. Insomma, di vivere ben al di sopra delle proprie possibilità, fino a creare uno shadow market assolutamente fuori regola, in cui il dollaro è però l'unica unità di misura. Le periodiche operazioni della Federal Reserve sui tassi di interesse consentivano fra l'altro di “raffreddare” la domanda di importazioni oppure di stimolare l'affluenza di capitali esteri. Una pacchia, diciamolo... Gli Stati Uniti potevano governare il mondo usando la mano sinistra della moneta o quella destra della forza militare, senza quasi mai la necessità di affondare il colpo fino al punto di non ritorno.

Perché ora gli Usa hanno selezionato Trump per mettere fine a questa situazione?

La controindicazione del modello commerciale tenuto in piedi per oltre 70 anni è evidente, ma è diventata insostenibile con 25 anni di delocalizzazioni della produzione industriale: la bilancia commerciale ha raggiunto livelli incompatibili con qualsiasi criterio di “prudente gestione” (abbiamo scritto spesso che gli Usa non potrebbero mai superare gli esami di ammissione alla Ue, secondo i parametri di Maastricht) e la disoccupazione interna, nonostante criteri statistici truffaldini, assomma ormai a quasi 100 milioni di persone (oltre un terzo della popolazione in età lavorativa). Delocalizzare ha gonfiato i profitti delle multinazionali Usa, ma ha svuotato l'America di buona parte della propria potenza. La crisi sociale destabilizza anche il paese più stabile del mondo, quindi va invertita la tendenza favorita dalla “globalizzazione concertata” (grandi istituzioni sovranazionali che fungono da camera di compensazione tra interessi divergenti, e che quindi limitano lo strapotere della potenza principale). Tanto più che i paesi con cui lo squilibrio è più forte sono Germania, Cina, Giappone e Messico.

Gli Stati Uniti, per riequilibrare i conti, non possono però ricorrere a una classica “svalutazione competitiva”, proprio perché il dollaro è moneta di riserva globale (sebbene insidiata da lontano da euro e renminbi cinese), e quindi ogni crollo sostanzioso del valore avrebbe ripercussioni mondiali impossibili da controllare e da cui la struttura sociale Usa verrebbe travolta.

Dunque – hanno pensato anche a Wall Street, che ora passa all'incasso con la cancellazione della legge Dodd-Frank, che limitava seppur in ridotta misura la speculazione finanziaria – non resta che demolire queste “camere di compensazione” e tornare ad un regime di accordi bilaterali. Squilibrati per definizione, visto che nessun paese – tranne forse la Cina – può esibire una forza complessiva (economica,finanziaria, militare, coesione sociale interna) solo lontanamente confrontabile con quella Usa – Altro che “più sovranità per tutti”! Gli Usa di Trump vogliono essere uno schiacciassi che spiana qualunque emersione contraddittoria...

Ma c'è un però. Questi Stati Uniti non sono in grado di realizzare questo obiettivo in tempi brevi, né hanno alcuna certezza di raggiungerlo. Unione Europea e Cina sono aree di quasi pari potenza commerciale e produttiva, se non superiori. Ma sono militarmente poca cosa. O per carenza di un esercito comune (la Ue), o per storica mancanza di aggressività all'esterno (la Cina).

Come si vede, quel che giova alle multinazionali (finanza compresa) basate in America non coincide più con gli interessi degli Stati Uniti (un paese, dove la popolazione – certamente ingannandosi – è convinta di poter contare su uno status di superiorità rispetto al resto del mondo). Ora anche gli Usa devono comprare tanto quanto vendono. Ma pensano – con Trump – di poterlo fare dettando le condizioni ai partner, uno alla volta. Quindi traendo un vantaggio dallo squilibrio di potenza.

Restano i più forti, certamente, ma non sono più “eccezionali” e irraggiungibili.

Questo porta il discorso, per quel che ci riguarda da vicino, all'Europa.

Il secondo intervento è di Joshka Fischer, ex leader dei Verdi tedeschi, ex ministro degli esteri con Schroeder, pubblicato da IlSole24Ore. Titolo inequivocabile, specie se accompagnato da un sottotitolo così chiaro: “La forza di Berlino nell'era Trump. L'Unione d'ora in poi dovrà fare il possibile per incrementare il contributo alla difesa nel quadro Nato”.

L'analisi di Fischer è precisa, per quanto riguarda le conseguenze del neo-isolazionismo americano:
Le alleanze, le istituzioni multilaterali, le garanzie di sicurezza, gli accordi internazionali e i valori comuni alla base dell’ordine mondiale corrente presto potrebbero essere messi in discussione, o rigettati completamente.

Se andrà in questo modo, la vecchia Pax Americana sarà stata distrutta, senza alcuna necessità, dall’America stessa. E non essendoci nessuna impalcatura alternativa pronta a rimpiazzarla, tutti gli indicatori segnalano turbolenza e caos nel prossimo futuro.

I due ex nemici dell’America, la Germania e il Giappone, saranno fra quelli che ci rimetteranno maggiormente se gli Stati Uniti, sotto Trump, dovessero abdicare al loro ruolo globale.
La ragione è scontata, per chi riflette: entrambi i paesi sono cresciuti sagomando le proprie economie sulla competizione industriale, senza dover dirottare risorse imponenti nella spesa più improduttiva di tutte, quella militare. Vero è che hanno implicitamente rinunciato alle potenzialità dell'export militare, ma nel settore gli Stati Uniti avevano comunque un vantaggio competitivo (know how, ma anche divieti espliciti ai due paesi di percorrere la strada del riarmo) impossibile da colmare. Dunque non ci hanno perso nulla, anzi, guadagnato molto.

La “sicurezza” per entrambi era garantita e pagata dagli Usa, ovviamente versando prezzi pesanti in termini di sovranità nazionale per quanto riguarda servizi segreti e comparto militare in genere. Esattamente come l'Italia, per molti versi, ma con una superiore capacità di trasformare un handicap – aver “costantemente rigettato ogni forma di Machtstaat (Stato di potere)” – in un vantaggio.

Quel mondo, al pari del predominio assoluto del dollaro, è finito. Ma ”la Germania non può rinazionalizzare la sua politica di sicurezza neppure in teoria, perché farlo significherebbe compromettere il principio di difesa collettiva in Europa e lacerare il continente”. Dunque, visto che “la prospettiva della Germania ormai coincide con quella dell’Unione Europea”, e che “la forza della Germania si basa sulla sua potenza finanziaria ed economica”, “ora Berlino dovrà mettere quella forza al servizio dell’Unione Europea e della Nato”.

Un gioco di equilibrismo, perché per riuscire in questo sforzo la Germania – con la parte di Unione Europea che riuscirà a reggere la torsione – dovrà contemporaneamente spingere per il “il mantenimento del sistema di libero scambio mondiale”. Proprio quello che gli Usa di Trump hanno iniziato a mettere in discussione...

In ogni caso, ricorda Fischer, la Germania “non può più contare sul cosiddetto «dividendo della pace»”. Stavolta dovrà tirare fuori i soldi, quel famoso surplus che sfora sistematicamente i limiti di Maastricht, per sostenere un riarmo militare europeo di enormi dimensioni. Dentro il “quadro Nato”, ma più probabilmente anche fuori...

Infine, sul piano interno, Giancarlo Elia Valori, ex manager di metà delle partecipate italiane (Autostrade, Sme, Sviluppo Lazio, ecc, nonché di Huawei Italia), sul giornalaccio di Maurizio Belpietro, ha spiegato molto chiaramente perché – dal punto di vista delle imprese italiane – Nella guerra di Trump contro l'euro noi vinciamo, la Germania perde. Nulla di particolarmente originale, si dirà, ma riprende le parole di Peter Navarro, capo del National Trade Council appena formato da Trump, sul fatto che Berlino con l'euro “sta sfruttando sia i suoi vicini che gli Usa”.

Il tutto per arrivare a dire che – se verrà scelta davvero la strada dell'”Europa a più velocità”, come la Merkel vorrebbe formalizzare già nel vertice di Roma, il 25 marzo – allora sarebbe bene che questa “molteplicità” si vedesse anche a livello di moneta. Abbandonando dunque l'euro e le disparità mostruose che è andato gonfiando.

Alla fine di questa lunga strada, che cosa resta?

Che l'assetto economico e monetario mondiale in piedi dal 1971 (ma in fondo dal 1945) si sta disfacendo. L'intenzione Usa di passare dalla governance globale fondata sul dollaro a una serie di rapporti bilaterali squilibrati, con al centro il “peso” statunitense è tutt'altro che un gioco facile. Un po' perché tutti gli altri soggetti di un certo calibro cominceranno a fare altrettanto, alimentando una concorrenza geopolitica oltre che economica. Un po' perché l'area che interessa di più agli Stati Uniti – nella logica della bilancia commerciale da riequilibrare – è l'Asia del Pacifico, non tanto l'Europa.

Che l'Unione Europea si trova ora stretta tra difficoltà interne – l'impoverimento dei paesi deboli ha alimentato frustrazione che si ripercuote ora sulla stabilità politica di quasi tutti i paesi, Germania compresa – e pressione esterna statunitense, tesa a ridimensionare l'ambizione tedesca a fare della Ue un'enclave riservata.

Che proprio la spinta americana a “contribuire alle spese militari della Nato” – il povero Gentiloni si è sentito chiedere da Trump un raddoppio della spesa per la difesa, ora intorno all'1,1% – sta provocando di rimbalzo una tentazione di riarmo europeo finanziato con surplus tedesco. Con tutti i corollari strategici che si possono immaginare.

La kerneurope a questo punto comincia a prendere forma. E questo paese, che ha alienato senza pensieri quasi tutto il proprio patrimonio industriale, non è in grado di farne parte neanche volendo e pregando.

Allacciate le cinture e dimenticatevi del mondo appena finito. Democrazia parlamentare compresa…

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