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12/04/2017

Guerre che non si vincono: un’azione dimostrativa per riprendere la leadership

È sempre più evidente che la Siria è una guerra che nessuno può vincere e che la lotta al terrorismo non si combatte senza un accordo tra superpotenze in Medio Oriente, perché è da lì che tornano i foreign fighter e traggono ispirazione jihadisti e lupi solitari in azione in Europa. Gli eventi siriani e l’attentato a Stoccolma sono il simbolo di una spirale di barbarie da cui l’Occidente e la Russia devono uscire.

Al Pentagono sanno che non sarà un lancio di missili Tomahawk verso una base aerea a sbalzare dal potere Assad e neppure a cambiare le sorti della guerra. È uno “strike” utile a riallineare Washington con i suoi storici partner in Medio Oriente – Turchia, Israele e le potenze sunnite – assai scontenti di una politica troppo vicina a Mosca e favorevole all’Iran sciita. Soltanto pochi giorni fa gli Stati Uniti avevano detto a Erdogan e all’Onu che abbattere Assad «non era più una priorità di questa amministrazione» e che poteva essere un alleato contro i jihadisti: il che significava liquidare seccamente l’obiettivo di Ankara – già costretta a chinare il capo con Mosca e Teheran – e delle monarchie del Golfo. Un cambio di rotta repentino deciso da Trump ma forse soprattutto dai generali Mattis e MacMaster che conoscono a fondo la regione.

Mai negli ultimi sei anni gli Stati Uniti erano entrati con questa rapidità sullo scenario mediorientale, neppure quando i massacri venivano compiuti dal Califfato. L’idea di punire Assad per le armi chimiche è quella di lanciare un avvertimento a coloro che non obbediscono alla superpotenza americana, forse non a caso l’operazione è avvenuta mentre Trump riceveva il presidente cinese, ritenuto il protettore della Corea del Nord. Un’azione dimostrativa: del resto la guerra dal cielo e sul terreno gli americani la stanno già facendo all’Isis e le truppe speciali si trovano sul campo per l’assedio a Raqqa.

Un altro risvolto interessante è che i missili hanno colpito una base aerea ma non installazioni vitali a Damasco o il palazzo presidenziale. Per il momento Trump esita ad aprire un fronte più vasto. Ognuno reciterà la sua parte ma che Mosca possa mollare Assad è improbabile, visto che in Siria mantiene basi strategiche nel Mediterraneo. Tanto meno Teheran può abbandonare Assad: il clan alauita di Damasco è l’unico alleato arabo degli iraniani.

La punizione del regime farà piacere alla Turchia e alle monarchie del Golfo che per abbatterlo hanno sostenuto i jihadisti. Che poi i sauditi ammazzino tutti i giorni i bambini yemeniti bombardando i ribelli Houthi non è un evento degno di nota nell’agenda occidentale. Israele, che dal 1967 occupa il Golan siriano, vede nell’attacco Usa un via libera ai raid e a un possibile attacco agli Hezbollah libanesi. La guerra all’Isis si incrocia di nuovo con quella ad Assad: ma sarà vera guerra o Trump ha solo mostrato i muscoli? La seconda ipotesi appare più probabile perché un cambio di regime a Damasco è un’impresa troppo impegnativa e dopo l’insuccesso di Bush junior in Iraq e di Obama in Libia forse gli americani qualche cosa hanno imparato.

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