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10/08/2017

Frammenti d’Impero. La presenza militare francese all’estero

Soprattutto Africa e Oceano indiano, dall’allora ‘Africa francese’ all’Indocina prima che fosse Vietnam. Negli ultimi cinquant’anni, la Francia ha compiuto in quelle aree oltre cinquanta interventi militari ufficiali, senza contare le operazioni segrete e clandestine del Service Action della DGSE. Più missioni meno uomini e mezzi: dagli anni ’60 a oggi, gli uomini schierati permanentemente in Africa sono diminuiti del 75%, circa 7.000.

L’istinto coloniale francese sopravvive a tutte le Repubbliche numerate che volete, anche alla versione numero 5 interpretata da Macron. Un interessante studio di Francesco Palmas su Analisi Mondo, racconta della ‘Africa first’ dalle parti di Parigi.

Scopriamo che negli ultimi cinquant’anni, la Francia ha operato nella ‘Africa francese’ e nell’Oceano indiano, con oltre cinquanta interventi militari ufficiali, senza contare le operazioni segrete e clandestine, del Service Action della Direction Générale de la Sécurité Extérieure.

Missioni sono in aumento, soldi e soldati in calo: – 75%, ridotti a 7.000 unità. Ecco spiegata postuma la lite tra il capo di Stato maggiore che poi si è dimesso, e Macron.

Rimpianti di ‘grandeur d’antan’, quando l’Armée, nella guerra d’Algeria, tenne in armi un esercito di mezzo milione di uomini per 8 anni.

Gli interessi francesi in Africa

La Francia protegge i suoi interessi politici, economici e strategici, annota Francesco Palmas , «Dai legami pluridecennali con i regimi al potere, alle miniere di uranio di Imouraren, in Niger. In Costa d’Avorio, le sue aziende hanno trovato una seconda patria. In Gabon le sue imprese petrolifere non hanno rivali. Un gigante come Total estrae in Africa un terzo della sua produzione mondiale di petrolio». E ha fatto (e sta facendo) carte false per intromettersi anche in Libia, con Macron che insegue l’interventismo di Sarkozy ma senza esercito.

Meno mezzi ma sempre presenti: basi permanenti sulla costa atlantica africana, in Senegal, in Gabon e in Costa d’Avorio. Ruolo logistico importante in Africa occidentale e centrale, fra il Mali, il Ciad e il Centrafrica. Presenza in via di riorganizzazione fra Gibuti e la Réunion-Mayotte, in pieno Oceano Indiano.

La nuova frontiera sahelo-sahariana

Confini smisurati, 4.000 chilometri lungo la costa mediterranea e 1.000 in profondità, il nuovo fronte di sicurezza africano è quasi interamente desertico. I gruppi terroristici ignorano le frontiere e viceversa, Mali, Niger e Ciad diventano un unico teatro di antiterrorismo. Si sono inventati una forza congiunta, ‘G5 Sahel’, che include anche Mauritania e Burkina Faso, per spartire le spese, con l’aiutino Ue di 50 milioni di euro. Per fortuna sono arrivati cento milioni di dollari da oltre atlantico. Gli aerei a stelle e strisce fanno la spola tra la Francia e il Sahel per trasportare parte dei soldati della missione, alternandosi con quelli britannici e con i cargo strategici Antonov affittati in Russia.

‘Forza Barkhane’, si chiama: 4.000 uomini, 8 cacciabombardieri, droni, elicotteri, e un po’ di forze speciali. Qualche raid e bombardamenti mirati. I jihadisti nell’ultimo anno hanno sferrato non meno di 60 attacchi, soprattutto in Mali e nella regione di Mopti. Un insieme di forze fedele all’emiro di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) Abdelmalek Droukdel e al capo di al-Qaeda centrale al-Zawahiri.

Supplenza americana e Gibuti

Gli americani hanno una trentina di uomini a terra, per fare intelligence, mentre un ufficiale dell’Us Army è in piantastabile al comando francese di N’Djamena, il cervello dell’operazione. N’Djamena ospita un’ambasciata americana nuova di zecca. L’interesse statunitense crescente anche nel Niger confinante. «Con il Ciad e il Niger, cui si aggiungono il Camerun, la Nigeria e il Benin, l’intesa franco-americana si sdoppia in un formato a tre con la Gran Bretagna», sempre Palmasò. Un fronte unico contro i terroristi di Boko Haram nella regione del Lago Ciad. Macro area che diventa problema anche italiano sul fronte traffici di migranti.

Anziché aumentare le basi permanenti in Africa, in una fase cruciale come l’attuale, la Francia sta disinvestendo in parte da Gibuti, in una sorta di divisione delle sfere d’influenza con Washington, molto attiva nel Corno d’Africa. Gli effettivi francesi stanno scendendo dagli attuali 1.450 a soli 1.350 uomini. Erano 1.900 tre anni fa e 5.600 nel 1977.

Gibuti strategica, con una frontiera condivisa con Eritrea, Etiopia e Somalia, e una linea di costa di 370 chilometri. Una finestra sul Golfo di Aden e sul Mar Rosso, via di transito di 20.000 navi l’anno, fra Asia ed Europa.

Il Triangolo dell’Oceano Indiano

Gibuti forma un continuum strategico ideale con le tre basi francesi negli Emirati Arabi Uniti e i possedimenti nella zona sud dell’Oceano Indiano. Come Regno Unito e Stati Uniti, la Francia è legata alla Federazione emiratina da accordi di ‘difesa attiva’. Gli Emirati delimitati a nord dal Golfo arabo-persico, condiviso con l’Iran, a est dal sultanato dell’Oman, e a sud dall’Arabia Saudita. Snodo petrolifero e strategico chiave. Un’area ricchissima, che custodisce nei suoi forzieri il 55% delle riserve mondiali di petrolio, il 60% di uranio, l’80% dei diamanti, il 40% del gas e il 40% dell’oro.

Vero è che Parigi mantiene un distaccamento della Legione Straniera a Mayotte (DLEM) e un contingente di 600 uomini a Pierrefond, nel sud dell’isola della Réunion, sorta di centro di gravità dei territori francesi nell’Oceano Indiano. Parigi tiene strette in pugno anche le Terre australi nelle acque subantartiche, dove controlla gli arcipelaghi di Kerguelen, Crozet e le isole San-Paolo e Amsterdam, dall’enorme potenziale economico.

Per ora, nelle Terre australi ci sono solo basi di esplorazioni e studi scientifici. Ma, con l’eventuale scioglimento dei ghiacci potrebbe aprirsi una nuova corsa all’oro, l’ultimo del pianeta. La Francia, ovviamente, ha già piantato la sua bandiera.

La catastrofe climatica planetaria e il neo colonialismo di chi sopravviverà.

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