Patricia Wallace, nella sua edizione aggiornata de La psicologia di Internet (Cortina
Editore, 2016) cerca di camminare su un punto d’equilibrio estremamente
precario. Per un verso, la studiosa americana intende attenersi agli
esiti di ricerche scientifiche affidabili, inerenti i rapporti tra l’uso
di Internet ed eventuali modifiche neurologiche e comportamentali.
Tuttavia in questo campo le evidenze sperimentali ricoprono un arco
temporale che non consente ancora di giungere a risultati certi e di
impatto univoco. O meglio, questi studi sembrano non soddisfare certe
attese sociali. Tutti infatti abbiamo la percezione di una
trasformazione profonda del nostro modo di gestire le relazioni, gli
stati d’ansia, la capacità di attenzione o di concentrazione, le
moltissime condotte di vita, tutte in qualche modo alterate dalla
progressiva pervasività della Rete. Quindi siamo certamente in grado di
azzardare ipotesi e forse vedere ciò che la ricerca ancora non è stata
in grado di dimostrare attraverso le proprie procedure. La Wallace cerca
dunque di accennare alle nostre attese e preoccupazioni, basate su
sensazioni non infondate, senza mai scivolare nell’approssimazione.
C’è
poi un altro sforzo di medietà. Indubbiamente è opinione di molti che
la Rete offra grandi opportunità e facilitazioni pratiche e
professionali. Tuttavia, in molti si dichiarano pessimisti sull’uso e
l’abuso della connettività. E la Wallace prova a tenere fermi gli
effettivi rischi sociali e psicologici di Internet, insieme a un certo
grado di ottimismo, relativo alla nostra capacità di apprendimento
dell’uso corretto del web.
L’autrice è molto onesta nel motivare la
propria difficoltà, constatando che “i ricercatori che intendono
studiare come la rete influenzi il comportamento si trovano di fronte un
obiettivo in costante movimento” (p. 2).
Un tipico esempio è
relativo al narcisismo. Molte persone hanno la forte percezione di
essere diventate più narcisiste con l’uso dei social, o quanto meno che
lo siano diventati i loro conoscenti. Tuttavia la questione non è così
semplice, e i dati sperimentali non sono in grado di dimostrare se la
componente personologica narcisista trovi nella Rete solo uno strumento
per autoalimentarsi, oppure se il mezzo stesso sia in grado di
determinare una trasformazione nei soggetti particolarmente immersi
negli ambienti virtuali. Da un punto di vista strettamente psicologico,
non esistono evidenze che dimostrino un aumento del narcisismo, ma
semmai esso trova nella contemporaneità strumenti per manifestarsi a un
pubblico più vasto. L’autrice non si sbilancia, ma forse potremmo
proseguire il suo ragionamento, e aggiungere che questa capacità
amplificante del mezzo, non può non avere ripercussioni sul sistema
emotivo del soggetto, e sul suo bisogno costante di un più ampio
ventaglio di apprezzamenti e riconoscimenti.
Molto importante e
interessante la sezione dedicata all’ambiguità delle comunicazioni
online. Di questo ci rendiamo poco conto, mentre invece il rischio
d’equivoco, nonostante il ricorso a emoticon o escamotage
d’ogni genere, è sempre altissimo. Fornendo solide prove sperimentali,
la Wallace dimostra quanto debole sia su questo tema il nostro grado di
consapevolezza: “di solito, siamo convinti della chiarezza delle nostre
comunicazioni, quando invece esse sono spesso piuttosto ambigue e facili
da fraintendere” (p. 135). L’ironia non viene quasi mai colta, e la
sicurezza con la quale siamo certi che i toni dei nostri messaggi siano
afferrati dal destinatario, parrebbe stimolata da un eccesso di
egocentrismo che caratterizza la comunicazione online, che essendo priva
di contatto oculare e vicinanza fisica, riduce di molto la connessione
empatica. Probabilmente questa forma di egocentrismo, unita alla
possibilità dell’anonimato, è uno dei fattori scatenanti
dell’aggressività in Rete, su cui pure l’autrice si dilunga molto, senza
tuttavia scandagliare le forse più profonde radici sociali della rabbia
collettiva.
Per altro verso, vi sono molti casi e situazioni
sperimentali che lasciano emergere una maggiore disposizione all’aiuto e
alla richiesta di aiuto, insieme a una rafforzata inclinazione verso la
self-disclosure. C’è un meccanismo di facilitazione del
sentimento della vicinanza all’altro, determinato proprio dalla
lontananza fisica. Non vedo l’altro, lui non vede me. I nostri spazi non
s’invadono. Ciò che dell’altro potrebbe infastidirmi non si manifesta e
dunque, probabilmente per il sentimento di sicurezza che mi circonda,
sono più propenso ad ascoltarlo e a lasciarmi coinvolgermi dai suoi
problemi. In fondo, in teoria, posso disconnettermi quando voglio.
Ecco,
questo è un punto importante. Quanto più crediamo di poter naturalmente
decidere i tempi e i modi della nostra connessione, tanto più stiamo
diventando irrimediabilmente dipendenti dalla socialità online e dagli
ambienti virtuali. Tali contesti sono così appaganti da stravolgere
completamente il nostro sistema di percezione dei premi e delle
punizioni. È un po’ come il fenomeno della pornografia in Rete. Non è
nulla di nuovo, il porno è sempre esistito. Ma la sua gratuita e
onnipresente disponibilità rende possibile in ogni momento entrare in un
ambiente che propone un sistema di gratificazioni, che crea dipendenza,
e che però finisce per generare insoddisfazione nei confronti
dell’esperienza reale.
Ecco che la socialità online, con i suoi
rinforzi da “notifica”, “mi piace”, “share”, produce continue scariche
di dopamina che rendono non solo il nostro sistema nervoso
irrimediabilmente teso ad adoperarsi per ottenere la scarica successiva,
ma rischiano di rendere gli uomini e le donne insoddisfatti delle
relazioni non virtuali.
Questo discorso concerne anche
l’esperienza politica. La dimensione dei forum e dei blog, dove
convergono simultaneamente vocazioni alla cooperazione, sfoghi di
frustrazioni e aggressività, e sistemi di reciproco rinforzo sociale,
producono col tempo una forma di dipendenza, e anche di allontanamento
dal concetto tradizionale di militanza e partecipazione. Senza offrire
qui giudizi di valore, occorre capire che questo cambiamento esiste, ed è
già incarnato nelle esistenze di ciascuno. Molte persone interrompono
le proprie discussioni faccia a faccia, ne sfuggono, e pochi minuti dopo
le continuano tramite whatsapp in lunghi e articolati messaggi. Perché?
La
rete garantisce un sistema protetto di comunicazione, che riduce i
rischi ma è anche capace di strutturare rapporti e legami. Il concetto è
complesso, ambiguo e ha ragione la Wallace a non volerlo banalizzare.
Questa trasformazione è in corso, “dalla media alla fine delle
superiori, infatti, i ragazzi trascorrono circa un’ora e mezza al giorno
a scrivere SMS” (p. 305), se poi sommiamo a questo tempo quello
dedicato ai diversi social network cui sono iscritti e dai
quali sono costantemente sollecitati, ci rendiamo perfettamente conto
che il sistema cognitivo non può non subire una drastica mutazione.
Valori, norme e modelli sociali, tendono a essere veicolati attraverso
la Rete. E non basta auspicare un uso del web come mero strumento per
trasmettere più nobili aspirazioni, perché il medium è il messaggio, ed esso in sé quella trasformazione cognitiva la produce, anche se i contenuti del messaggio tendono a veicolare l’opposto.
Sicuramente
l’impatto del web sullo studio e sui livelli di apprendimento è
negativo. Ormai, nonostante tutta la propaganda degli ultimi anni, le
ricerche offrono dati affidabili. In precedenza alcune osservazioni
sperimentali avevano rilevato effetti positivi del computer e di
Internet sul rendimento scolastico di alcuni studenti, specialmente in
lingua inglese, matematica e scienze. Tuttavia, ricerche più recenti
hanno osservato “effetti molto esigui, insignificanti, o addirittura
negativi, soprattutto per gli alunni che usano il computer con frequenza
maggiore” (p. 307). Per gli studenti particolarmente legati ai
videogiochi online, la dipendenza è il rischio maggiore, e questa
trascina con sé ampie aree di tempo impiegate in attività ludiche, ma
anche perdita del sonno e cattiva alimentazione, con conseguenze
inevitabili sullo studio.
Anche il multitasking è un
falso mito, secondo la Wallace. Molte ricerche sono arrivate a
dimostrare con ragionevole certezza che non esiste nessuna reale
competenza di fare più cose insieme, per le giovani generazioni. Questa
polifunzionalità dell’essere umano concerne solo compiti pratici, parte
dei quali hanno un elevato grado di automatismo, che non richiedono cioè
una vera applicazione mentale. La sollecitazione dei telefoni o del
solo desiderio di sbirciare gli aggiornamenti di Facebook, tende quindi a pregiudicare le performance nell’apprendimento.
Importanti
e intriganti sono i paradossi sulla privacy individuati dalla Wallace.
Razionalmente sappiamo che la Rete è un sistema di controllo capillare
dei comportamenti degno del panopticon, non leggiamo mai l’informativa sulla privacy quando scarichiamo una app,
e sappiamo coscientemente che le grandi multinazionali si arricchiscono
grazie ai nostri dati e con essi muovono parti importanti delle nostre
vite. Lo sappiamo, ce ne preoccupiamo, lo denunciamo magari, eppure
sembra che non riusciamo a fare a meno di mettere in rete una quantità
infinita e tutto sommato superflua di informazioni sul nostro conto.
Dove siamo, cosa mangiamo, chi frequentiamo, cosa stiamo pensando.
Inviamo messaggi attraverso la rete anche condividendo l’intimità, pur
sapendo che per un errore o per malafede i nostri testi, foto o video
potrebbero improvvisamente finire al destinatario sbagliato, o diventare
di dominio pubblico.
Il fatto è che il livello di dipendenza è ormai fuori controllo: “un sondaggio ha indagato la frequenza d’uso dei social network
su una sezione trasversale di americani, dagli adolescenti ai
cinquantenni. Circa un terzo degli adolescenti e dei giovani adulti ha
affermato di controllare Facebook almeno ogni quindici minuti.
Ciò significa che non riuscirebbero a partecipare a una lezione in
classe o a una cena in famiglia senza controllare diverse volte cosa
succede nel mondo online” (p. 441).
Se ogni mattina il vostro primo gesto è controllare lo smartphone per
cercare gli aggiornamenti, prima o poi finirete per svegliarvi di
notte, per monitorare le notifiche e poi faticare a riprendere sonno.
Probabilmente l’umanità riuscirà a trovare un sistema di
naturalizzazione di questi processi. E Internet sarà per noi una
condizione normale come lo è l’elettricità. Al momento, tuttavia, ci
aspetta una difficile fase di transizione.
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