di Michele Giorgio – Il Manifesto
Il Cairo ospiterà il 10
ottobre un incontro tra il partito Fatah, guidato dal presidente
dell’Anp Abu Mazen, e il movimento islamico Hamas, per discutere i
prossimi passi della riconciliazione tra le due parti. Saranno prese in
esame varie questioni e, forse, verrà fissata la data delle elezioni
legislative e presidenziali nei Territori occupati.
Regnava un cauto ottimismo ieri quando ha lasciato Gaza la delegazione egiziana che sta mediando tra Hamas e Fatah. Abu
Mazen ha fatto dichiarazioni distensive dopo il secco no di martedì
alla possibilità che a Gaza possa esserci un controllo di sicurezza
diverso da quello in Cisgiordania, ossia affidato alla milizia di Hamas,
le Brigate “Ezzedin al Qassam”. Abu Mazen ieri ha detto che
farà ogni tentativo per porre fine alla divisione interna palestinese.
Eppure, nonostante la serietà del tentativo in atto, pochi credono che
l’obiettivo della riconciliazione sia davvero a portata di mano. Gli
interrogativi non mancano.
«La causa palestinese sta tornando al centro della scena passando per
la porta egiziana. Purtroppo non si conoscono gli scopi nascosti della
riconciliazione e la natura dell’accordo finale», scriveva due giorni fa
l’analista Abdel Bari Atwan, direttore del giornale arabo online Al Raya al Youm.
Secondo Atwan la riconciliazione tra Fatah e Hamas è
funzionale alla strategia comune dei presidenti di Egitto e Stati Uniti,
Abdel Fattah el Sisi e Donald Trump, volta ad arrivare a una soluzione
non necessariamente rispettosa delle minime aspirazioni palestinesi.
«Si sente parlare di una soluzione temporanea che diventerà permanente –
dice Atwan – basata sul mantenimento degli insediamenti (coloniali
israeliani in Cisgiordania, ndr) e del rinvio a fasi successive delle
questioni di Gerusalemme e del diritto di ritorno (per i profughi
palestinesi)».
Il punto centrale, aggiunge l’analista, «è la creazione di uno Stato
palestinese ‘provvisorio’ che porti ad una ampia riconciliazione arabo- israeliana e alla normalizzazione delle relazioni (tra arabi e Stato
ebraico)».
È l’Egitto il motore del processo in atto, cominciato con
l’appoggio dato da el Sisi ad un ruolo di primo piano a Gaza per
Mohammed Dahlan, il principale rivale di Abu Mazen, sviluppo
che ha contribuito a spingere il presidente palestinese a puntare alla
riconciliazione con Hamas, anche per sventare il tentativo di
emarginarlo. I passi mossi dal Cairo hanno il sostegno di Benyamin
Netanyahu oltre che di Trump. Si è capito due giorni fa quando il
premier israeliano, pur condannando la riconciliazione tra Hamas e
Fatah, ha evitato di attaccare frontalmente Abu Mazen e di approvare
sanzioni immediate contro l’Anp, come aveva fatto nel 2014 quando Fatah e
il movimento islamico sembravano pronti a lavorare insieme per l’unità
nazionale.
Sul portale al Monitor ieri l’analista israeliano Shlomi
Eldar ha ricordato che «Trump aveva promesso ad Abu Mazen, nell’incontro
del 20 settembre a New York, l’annuncio entro poche settimane dei punti
centrali del suo piano (per il Medio Oriente). Ma non lo farà finché
non diventerà più chiaro il destino dei negoziati palestinesi». Ciò
significa – ha aggiunto – che «per quanto riguarda l’amministrazione
Trump, il conflitto israelo-palestinese sarà risolto solo sotto un
ombrello regionale, con l’Egitto che svolgerà un ruolo centrale».
E non da escludere che la riconciliazione tra Fatah e Hamas porti,
con una nomina o attraverso le elezioni, ad nuovo presidente dell’Anp. Non
è sfuggito il ruolo di primo piano che Majd Faraj, capo
dell’intelligence palestinese, sta svolgendo nelle trattative con il
movimento islamico. Faraj ha un rapporto stretto Washington. Il
direttore della Cia, Mike Pompeo, e l’inviato Usa in Medio oriente Jason
Greenblatt, lo vedono come il perno della stabilità di Abu Mazen e
dell’Anp.
E senza alcun dubbio è il candidato alla presidenza dell’Anp
preferibile per Israele. Dovesse riuscire a raggiungere un accordo con
il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, sul controllo di sicurezza della
Striscia, Faraj si ritroverà automaticamente nella posizione di
principale successore di Abu Mazen. Con l’appoggio anche del movimento
islamico.
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