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08/01/2018

L'Iraq mette alla porta i profughi palestinesi

di Michele Giorgio

Profughi due, anche tre volte. È il destino dei rifugiati palestinesi del 1948 e dei loro discendenti ai quali Israele non consente, e ripete che non lo permetterà mai, il ritorno nella loro terra, e che sono trattati da ospiti sgraditi in mezzo mondo arabo. L’Iraq dove i palestinesi fino all’invasione anglo-americana del 2003 e alla caduta di Saddam Hussein godevano di sussidi, solidarietà e diritti, si è gradualmente trasformato in un oppressore dei profughi.

Alla fine dello scorso anno Baghdad ha abolito la risoluzione 202 approvata nel 2001 dal disciolto Consiglio Rivoluzionario che assegnava ai rifugiati palestinesi diritti simili a quelli dei cittadini iracheni, tranne la cittadinanza. Presi di mira dopo il 2003 perché accusati di essere stati sostenitori di Saddam Hussein e bersaglio delle milizie armate di ogni fede e orientamento politico, le poche migliaia di palestinesi che ancora sono in Iraq (15 anni fa erano 40mila, ora circa 5mila) rischiano di perdere tutto.

L’ambasciatore dell’Olp in Iraq, Ahmed Aqel, manda segnali rassicuranti, dice che la situazione non è compromessa e che lo speaker del Parlamento iracheno, Salim al Jubouri, gli ha promesso di trovare una formula legale per preservare i diritti dei rifugiati palestinesi. Altri esponenti iracheni assicurano che i provvedimenti presi per gli stranieri residenti in Iraq non riguarderanno i rifugiati palestinesi.

Ma ora esiste una nuova legge, la n. 76 del 2017, ratificata dal presidente Fuad Masum. E parla molto chiaro. Abolisce i privilegi garantiti sotto Saddam Hussein, priva i palestinesi dell’istruzione pubblica, dell’assistenza sanitaria, dei buoni alimentari, degli alloggi gratuiti, dei documenti di viaggio e nega loro la possibilità di lavorare in seno alle istituzioni statali.

È fin troppo evidente il piano per sradicare e spingere gli ultimi profughi palestinesi a lasciare l’Iraq, al termine di 15 anni segnati da omicidi, sfollamenti, detenzioni arbitrarie, torture e condanne ingiuste nei tribunali iracheni. «Anziché proteggere i profughi palestinesi dagli abusi quotidiani e migliorare le loro condizioni di vita, il governo iracheno prende decisioni che avranno un impatto catastrofico sulle vite di questi rifugiati», ha protestato l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.

I media arabi e internazionali intanto continuano a ignorare la vicenda, assieme alla condizione di centinaia di famiglie palestinesi/irachene che da anni vivono in campi profughi provvisori e in alloggi di fortuna situati lungo i confini con la Siria e la Giordania, dopo essere stati cacciati dalle loro case.

A questo dramma, politico ed umano, si aggiunge il possibile congelamento di 1/3 di 364 milioni di dollari che gli Stati Uniti donano annualmente all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i 5 milioni di profughi palestinesi nei Territori occupati e nei Paesi arabi. Due giorni fa la tv israeliana Canale 10 e il sito Axios, citando anonimi diplomatici occidentali, avevano rivelato che l’Amministrazione Trump ha bloccato 125 milioni di dollari destinati all’Unrwa per punire i leader palestinesi che hanno condannato con forza il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele fatto un mese fa dalla Casa Bianca.

Tuttavia ieri il Dipartimento di stato Usa ha precisato che non è stata ancora presa alcuna decisione finale. A spingere per il taglio dei fondi sarebbe in particolare Nikki Haley l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, stretta alleata di Trump e Israele.

Netanyahu, non è un mistero, vede nell’Unrwa un ostacolo all’integrazione dei profughi palestinesi nei Paesi arabi dove vivono attualmente e, di conseguenza, all’annullamento della risoluzione 194 dell’Onu che afferma il diritto dei rifugiati al “ritorno”. Tuttavia, riferiscono i media israeliani, il premier in questo caso non approva del tutto i provvedimenti drastici come quelli proposti da Haley e Trump – che rischiano di aggravare la crisi umanitaria di Gaza con rischi anche per Israele – e sollecita invece un “disimpegno graduale” degli Usa dall’Unrwa.

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