di Michele Giorgio
Profughi due, anche tre
volte. È il destino dei rifugiati palestinesi del 1948 e dei loro
discendenti ai quali Israele non consente, e ripete che non lo
permetterà mai, il ritorno nella loro terra, e che sono trattati da
ospiti sgraditi in mezzo mondo arabo. L’Iraq dove i palestinesi fino
all’invasione anglo-americana del 2003 e alla caduta di Saddam Hussein
godevano di sussidi, solidarietà e diritti, si è gradualmente
trasformato in un oppressore dei profughi.
Alla fine dello scorso anno Baghdad ha abolito la risoluzione
202 approvata nel 2001 dal disciolto Consiglio Rivoluzionario che
assegnava ai rifugiati palestinesi diritti simili a quelli dei cittadini
iracheni, tranne la cittadinanza. Presi di mira dopo il 2003
perché accusati di essere stati sostenitori di Saddam Hussein e
bersaglio delle milizie armate di ogni fede e orientamento politico, le
poche migliaia di palestinesi che ancora sono in Iraq (15 anni fa erano
40mila, ora circa 5mila) rischiano di perdere tutto.
L’ambasciatore dell’Olp in Iraq, Ahmed Aqel, manda segnali
rassicuranti, dice che la situazione non è compromessa e che lo speaker
del Parlamento iracheno, Salim al Jubouri, gli ha promesso di trovare
una formula legale per preservare i diritti dei rifugiati palestinesi.
Altri esponenti iracheni assicurano che i provvedimenti presi per gli
stranieri residenti in Iraq non riguarderanno i rifugiati palestinesi.
Ma ora esiste una nuova legge, la n. 76 del 2017, ratificata
dal presidente Fuad Masum. E parla molto chiaro. Abolisce i privilegi
garantiti sotto Saddam Hussein, priva i palestinesi dell’istruzione
pubblica, dell’assistenza sanitaria, dei buoni alimentari, degli alloggi
gratuiti, dei documenti di viaggio e nega loro la possibilità di
lavorare in seno alle istituzioni statali.
È fin troppo evidente il piano per sradicare e spingere gli ultimi
profughi palestinesi a lasciare l’Iraq, al termine di 15 anni segnati da
omicidi, sfollamenti, detenzioni arbitrarie, torture e condanne
ingiuste nei tribunali iracheni. «Anziché proteggere i profughi
palestinesi dagli abusi quotidiani e migliorare le loro condizioni di
vita, il governo iracheno prende decisioni che avranno un impatto
catastrofico sulle vite di questi rifugiati», ha protestato l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.
I media arabi e internazionali intanto continuano a ignorare la
vicenda, assieme alla condizione di centinaia di famiglie
palestinesi/irachene che da anni vivono in campi profughi provvisori e
in alloggi di fortuna situati lungo i confini con la Siria e la
Giordania, dopo essere stati cacciati dalle loro case.
A questo dramma, politico ed umano, si aggiunge il possibile
congelamento di 1/3 di 364 milioni di dollari che gli Stati Uniti donano
annualmente all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i 5 milioni di
profughi palestinesi nei Territori occupati e nei Paesi arabi. Due giorni fa la tv israeliana Canale 10 e il sito Axios,
citando anonimi diplomatici occidentali, avevano rivelato che
l’Amministrazione Trump ha bloccato 125 milioni di dollari destinati
all’Unrwa per punire i leader palestinesi che hanno condannato con forza
il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele fatto un mese fa
dalla Casa Bianca.
Tuttavia ieri il Dipartimento di stato Usa ha precisato che non è
stata ancora presa alcuna decisione finale. A spingere per il taglio dei
fondi sarebbe in particolare Nikki Haley l’ambasciatrice americana alle
Nazioni Unite, stretta alleata di Trump e Israele.
Netanyahu, non è un mistero, vede nell’Unrwa un ostacolo
all’integrazione dei profughi palestinesi nei Paesi arabi dove vivono
attualmente e, di conseguenza, all’annullamento della risoluzione 194
dell’Onu che afferma il diritto dei rifugiati al “ritorno”. Tuttavia,
riferiscono i media israeliani, il premier in questo caso non approva del tutto i provvedimenti drastici come quelli proposti da Haley e Trump
– che rischiano di aggravare la crisi umanitaria di Gaza con rischi
anche per Israele – e sollecita invece un “disimpegno graduale” degli
Usa dall’Unrwa.
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